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1606 Marin Gradenigo

Dispaccio del 18 aprile| 1607|

N. (senza numero)

Serenissimo principe,
delle due barche armate di Albanesi, che dagli eccellentissimi signori capi furno mandate di giorni passati alla mia obedienza, una fu heri speditta a Venetia dall’Illustrissimo signor proveditor Pasqualigo a condur il Clarissimo podestà di Isola, l’altra, essendo rimasta qui e ritrovandosi gli suoi di essa in gran parte alla beccaria, venuti a contesa per occasione di certa carne con li beccheri e con altri, passorno alle armi e tirrando uno di essi albanesi un’archibuggiata con un terzaruolo che haveva sotto, ammazzò non quello al quale haveva tirato, ma in fallo un altro pover huomo, che non era nella contesa, alla quale archibuggiata fu risposto da uno di questi della terra con un’altra che non colse alcuno. Aviatisi poi detti Albanesi alla volta del posto dove era la lor barca, diedero adosso a quanti gli venivano per li piedi di ogni sesso e di ogni età, et, havendo così per strada ferito tre o quattro altre persone, giunsero finalmente alla barca ove tutti loro dato di mano agli arcobusi errano in procinto di ritornar con essi nella città e causar molto maggior disordine, quando io, che inteso questo rumore era uscito di palazzo, havendo prima lasciato buoni ordini e guardie alle porte deli terrazzani, quali di già sonavano campanna a mastello non uscissero fuori, me ne andai alla barca accompagnato solamente dal Clarissimo consiglier Pasqualigo e dal mio cancellier, che per fuggir il tumulto non volsi meco alcuno della città, et con fatica grandissima dopo una lunga ressistenza li feci, con parole e trattamenti amorevoli, tutti imbarcare, e diedi ordine al capitano della barca, il quale veramente ha fatto buonissimo offitio, che dovesse andar all’obedientia dell’Illustrissimo signor proveditor ad Isola, e non ritornar più qua fino ad altro ordine mio, e così egli per lettere che tengo da Sua signoria illustrissima ha esseguito, ritrovandosi tuttavia in detto loco di Isola; ma perché il populo era già corso sulla muraglia et alle porte per voler in ogni modo uscir fuora, io, vedendo che le archibuggiate tirrate così dall’una come dall’altra parte volavano spessissime per l’aria, e che da una di esse era stato ferito uno sulla muraglia, me ne ritornai nella città, per veder pure di rimover li cittadini dalle mura e dalle porte, accioché il male non passasse più avanti et li albanesi che stentavano assai a cavarsi di porto, per esser per maggior disgratia con la barca in secco, havessero tempo anche essi di liberarsi e di andar con Dio; ma tanta alteratione era in questi di dentro sì per la natura dell’accidente che li pareva molto strano, come perché, con l’occasione della festa di Pasca, il populo si trovava in gran parte caldo dal vino, che non era possibile che si potesse non pur ammorzar il foco, ma neanco intepidir l’ardore che vi era, e bisognò che per rimediar a gli insulti che facevano alle case, nelle quali havevano sospetto che vi fossero ascosi di essi albanesi, per salvar la vita a tre poveri amalati di loro, che si trovavano in questo hospitale, e per andar destramente procurando che si disfacesse il tumulto, io mi trattenessi fuori di pallazzo fino quasi le tre hore della notte, con una fatica e con un strussio tanto grande che posso dir veramente che in 18 anni che ho servito la Serenità vostra io non mi sia mai trovato nel maggiore e più pericoloso accidente. Di questi della città non è morto se non quel primo che fu ammazzato in beccaria, seben ne sono tre o quattro altri feriti, li quali si spera che si rissolveranno in bene. Degli Albanesi, li tre amalati nell’hospitale sono salvi, gli altri della barca non so come stiano, ma intendo che sebene ve ne sono tre o quattro di feriti, non vi è però in alcuno pericolo di morte. Questi della città che mi hanno dimandato il consiglio che non potrò negarli per creare ambasciatori a piedi della Serenità vostra, per querelarsi degli Albanesi, né hanno anco ricercato a far questa notte passata guardare li duoi lochi […] cascorno le muraglie della città, che come le scrissi sono ampli e spatiosi, dubitando essi terrazzani che per di là gli albanesi non entrassero improvisamente a far qualche danno, e così è stato fatto, il che mi dà occasione di raccordarsi riverentemente alla Serenità vostra il bisogno grande che hanno esse muraglie di esser acconciate. Attendo a formar processo con pensiero, se non haverò altro ordine in contrario dalla Serenità vostra, di mandarlo all’Eccellentissimo signor general Contarini [?] in Dalmatia, perché faccia quanto gli parerà per giustitia contra essi Albanesi, et io farò il medesimo con questi della terra, sì per haver havuto ardimento alla mia presentia andar girando attorno la casa di don [?] Matteo Bruni, persona benemerita della Serenità vostra, e gettarli più di una porta a terra e mettergli ogni cosa sotosopra, con questo solo pretesto (benché falso) che in essa vi fossero albanesi ascosi, come anco per haver tre o quattro di loro solamente solevato il popolo e mostratisi totalmente sprezzatosi dagli ordini che mi parevano necessarii in così fatta occasione; et se paresse alla Serenità vostra di concedermi maggior auttorità di quella che mi ritrovo havere per procedere contra di loro, in caso che restassero assenti, così per castigo loro, come per essempio di altri in altre simili occasioni, credo che la giustitia et la publica dignità insieme restarebbe maggiormente satisfatta, rimettendomi però sempre al suo prudentissimo e sapientissimo giuditio. Gratie etc.
Di Capodistria li 18 aprile 1607.

Marin Gradenigo, Podestà e Capitano.

AS Venezia, Senato, Dispacci, Istria, b. 4
Trascrizione di Francesco Danieli.