8 maggio| 1553 Antonio Diedo q. Andrea e Zuan Battista Giustinian q. Marc’Antonio
Relazione|
BATTISTA ZUAN GIUSTINIAN
Sindico inquisitore in Dalmazia
1553
Relazione di Zuan Battista Giustinian ritornato di Inquisitore in Dalmazia 1553
Ittinerario di Dalmazia ovvero relazione dell’eccellentissimo signor Giovan Battista Giustiniano.
Alli 8 di maggio 1553 io Giovan Battista Giustiniano fu di messer Marin il cavalier, fu del clarissimo messer Sebastian cavalier e procurator, mi portai da Venezia, con tutta la corte, per andar al mio sindicato in Dalmazia et andai alla fortezza, ove spettai il mio colega, il magnifico messer Anzolo Diedo fin alli 16 et ivi caricassimo, nel naviglio tolto a posta per commodo nostro, vini, farine et altre cose di Friuli; alli 19 partissimo da Caorle per Pirano, con barca a posta, per esequir una commissione dattane dall’illustrissima signoria et nel passare il golfo di Trieste avessimo un poco di fortuna per Isola, ove giungessimo ad ore 21; alli 21 detto andassimo a Capo d’Istria, dove dimorassimo tutto quel giorno et il seguente detto partissimo per Dalmazia, per dar principio ad esercitare l’officio di sindicato. Da Pirano a Capo d’Istria sono miglia 10 fra l’uno e l’altro vi è un castello detto Isola posto a marina, da noi veduto solamente per passaggio, lontano da Capo d’Istria miglia cinque et il medesimo da Pirano.
Capo d’Istria
Capo d’Istria è città antica e come si dice fabbricata da una figlia di Gustiniano imperatore, alla quale gli diede il nome di Giustinopoli, e fabricata ch’egli ebbe vi condusse ad abitare le famiglie Sobrina, Vida, Guarda, Verla et altre, le quali oggidì vivono in quella città, la quale è situata sopra un scoglio prodotto dalla natura, circondato d’ogni intorno da mare, il cui circuito può esser un miglio e mezzo intorno; et ancorché il mar la circondi, è nondimeno cinta di mura antiche et al porto ha un molo, non troppo bello et verso la marina. Verso la parte di levante ha una porta, fuora della quale è fabbricato un ponte, consolidato di terra e sassi, che giace nel mare, il quale in quella parte è poccoå profondo, e non è longo ch’un miglio e mezo, alla metà è un castelletto vecchio et di pocca fortezza detto Lion, nel quale vi sta un Castellano nobile veneziano. Verso poi la parte di terra ferma è Monfalcon, castello della Patria di Friuli, lontano da Capo d’Istria miglia 25. Quella città ha oltre il canal maritimo verso levante assai buon territorio, posto la maggior parte in colli ameni e fruttiferi, che producono vini eccellentissimi in quantità, di modo che oltre li vini che sono bastanti a tutto quel paese, ne vendono gl’abitanti ogn’anno per ducati 25.000 in 30.000; et avanti che si seccassero gl’olivari vi cavavano buona quantità d’oglio, che cresceva l’entrata di quelli cittadini di ducati 20.000 all’anno, la quale è del tutto mancata. Pur si va di nuovo alevandoli. Biave non nascono in quel territorio se non pochissime, di maniera che non bastano per il loro vitto di tre mesi dell’anno alla città et territorio. Si prevagliono la città e territorio di biave della Puglia, della Marca e del Cragno. Sono nella città anime 10.000 in circa. Il popolo è devotissimo alla Serenissima signoria. Tutti gl’abitanti, così nobili come popolari, sono ornati di bellissimi costumi, gl’abiti loro sono all’italiana e vi sono molti dottori e litterati, ma il territorio tutto è abitato e coltivato da gente schiava. La Camera fiscale scuode puoco dannaro et dalla rendita alla spesa che ha essa Camera è puoca diferenza.
Pirano
È castello assai antico situato alla marina in modo d’arco, parte in pianura e parte in colle alto, ameno e fruttifero, il quale è seratto dentro le mura e sopra d’esso è fabricata la chiesa principale, ch’è dedicata a san Zorzi protettore di quel castello, il circuito del quale è di doi terzi di miglio; et dove mettono piazza le barche è un molo belissimo fabricato nuovamente, il quale si estende in mare circa passa 70; et nel capo del castello è un canaletto in forma rotonda, nel quale stanno barche piccole e marciliane. Verso la marina sono assai porte piccole et fra levante et ostro è la porta Marzia che stende in terra ferma, per la quale si può andare per tutta l’Istria. La communità di questo luogo ha d’entrata ordinaria ducati 12.000 de piccoli all’anno e cresce a ducati 15, 20, 25 et fino 30.000 secondo che si vendono i dazi e secondo ch’è buona stagione di pesci e sali, perché la communità vende all’incanto alcune valli nelle quali si piglia gran quantità di pesci et da tutti li sali che si fanno tocca alla communità d’ogni 7 stara uno; oltreché la communità affitta all’incanto certe colline che fa vini in buona quantità, de quali dannari essa communità manda a Venezia certa terza parte o limitazione et paga ancor alcuni soldati da Raspo e dà al magnifico potestà lire 800 de piccoli al’anno per suo salario. Tiene un medico fisico salariato, un cirurgico et un precettore a suoi figli. Il popolo è fidelissimo alla Republica et può essere nel castello anime 3.500. Gli abbitanti hanno costumi italiani assai buoni e parlano buona lingua franca. L’aere è salubre e la prospettiva, tanto del castello che delle valli, è molto ameno, cossicché rende il castello bello a maraviglia. Il territorio è tutto in calli ameni et fruttiferi et produce molti vini, che sono il nervo dell’entrade degl’abitanti del luogo, li quali vendono per lo più alle galere quando vanno a disarmare. Vero è che in coltivar le vigne spendono molti dannari et gran fatica. Biave nascono pochissime. Le saline sono in una valle aperta lungi da Pirano miglia 5 e rendon a tutti li piranesi grande utilità de sali, delli quali si fanno grandissimi contrabandi a danno del publico. Lungi circa 5 miglia vi è una punta chiamata Salvore e Saltua, ove la Serenissima signoria fece quel fatto d’arme navali così memorabile ad instanza di papa Alessandro fugito e sconficato da Federico imperatore, al quale ruper e fecero il figlio priggione. Alli 22 detto s’incaminassimo seguendo il nostro viaggio, nel quale vedessimo Umago, castelo lontano da Pirano miglia 15; Citta Nova, lontana da Umago miglia 10, questa è inabitata et desolata; Parenzo, cità lontana da Citta nova miglia 7, assai buon luogo; Orsera, castello sottoposto al pontefice, lontana da Parenzo miglia 5; Rovigno, castello lontano da Orsera miglia 5, dirimpetto del quale è un scoglio, sopra del quale è fabricato un monastero de fratti zoccolanti, la chiesa del quale è consacrata a nome di sant’Andrea et ivi è un boschetto, così folto et adorno d’arbori vaghi, alti, belli et folti, che rendono quel scoglio bellissimo et così opaco, ameno et dilettevole, che saria luogo proprio d’accademia e degno della solitudine di spiriti solevati et d’alti ingegni, per eccitar gl’animi loro a bei studi. Quivi i relligiosi vivono d’elemosina che loro è datta da naviganti che per là ogn’ora passano et perciò tengono una barca. Arivassimo a Pola, lontana da Rovigno miglia 20, dove dimorassimo quella notte, stando in galera.
Pola
È città antichissima, la cui antichità si comprende dal teatro o arena che oggidì sta in piedi, fabricata in forma rotonda et dalle gran ruine del palazzo detto zar, già colonia de romani, et d’altre diverse antichità che si vedono per la città, la qual per esser sottoposta a venti augustali, che vi sofiano di continuo, si mangiano pesci tondi in quantità, l’interiora delli quali restano sopra quele marine e fanno l’aere pestifero affatto, per cui la città è disabitata, ove stancia poca gente, dimodo che nobili di Consiglio non sono altri che 17; per le quali cagioni per tutta l’Istria è pessimo l’aere et perciò è inabitata, la quale se fusse più piena di gente et coltivata, per esser piana et fertile in gran parte, daria grandissimo sovvegno di biave a Venezia, oltre di ciò ordinariamente si faria gran uomini da remo. Il territorio è grandissimo, ma poco coltivato, et s’estende fino alli scogli del Promontore, dove comincia il flutuoso golfo del Quarnaro. Alli 23 partissimo dal Cassare, porto di Pola, et giungessimo al scoglio di Selva, ove dimorassimo qualche notte, nel qual viaggio vedessimo le Promontore, uno piccolo et l’altro grande. Questi sono due scogli sotto acqua lontani da Pola miglia 12 posti alla bocca del Quarnaro, pericolosissime a naviganti, per esser ivi oltre 6 piedi d’acque, che volendosi schivare non bisogna passar per mezzo, ma appresso li scogli dove è maggior fondo. Vedessimo passato Quarnaro Unio, scoglio lontano dal Promontore 30 miglia. Arrivassimo al scoglio di San Pietro di Selva, lontano dal scoglio di Nembo miglia 10. Questi tutti scogli hanno porti bellissimi da capir ogni gran legno et ogni armata, ma non del tutto sicuri, et nel passar il Quarnaro, golfo pericolosissimo e largo 30 miglia, avessimo un segno di fortuna con marizata grossa. Alli 24 detto giungessimo a Zara, lontana dal sudetto scoglio di San Pietro di Selva miglia 30, dove alli 29 maggio fu cominciato l’officio di sindicato. E basti aver tocco una parola dela provincia dell’Istria veduta, anzi superficilmente scorta e con diligenza non esata, per non aver avuto tempo et ordine di vederla. Ma piuttosto descritta per memoria, per poterla legere, per raccontar il viaggio come fu, non lasciando parte a dietro.
Fine della descrizione della provincia d’Istria.
Zara
Zara è città antica et metropoli di Dalmazia, è stata recinta sette fiate nel tempo delle guerre, dimodo che ancora vi apparono le vestigge delle ruine, perché ribbellorono zaratini alla Republica sette volte. Il sito d’essa è in pianura e circondata dalla marina dalle parti di levante, tramontana e ponente, e fra ostro e levante, cioè in sirocco è la porta di terraferma. Il circuito veramente è di un miglio e un quarto, le mura che la circondano sono antiche, tutta via sono forti assai rispetto al sito che da sé è fortissimo, essendo circondata dalla marina da tutte le parti, oltre il sito che la rende inespugnabile; e nella bocca del porto è una purpurella che traversa et a sera doi terzi della bocca predetta et l’altro terzo d’esso canal, che fa il porto verso la faccia del castello, è serrato d’una catena, alla quale vi stanno di continuo e di notte due soldati da guazzo, guardiani del castello, per aprirla e serarla quando bisogna, di modo che li navigli non possono entrare in porto né uscir, se non per quella parte della bocca ch’è serrata dalla catena. La purpurella non è altro che un ammassamento di pietre vive, con artificio butate in aqua, et è alta fino al pelo d’aqua, larga circa sei passa, longa passa 225 in circa, di maniera che non è possibile che per sopra vi passino né galee né altra sorta di barche.
Vi è poi altra sorta di purpurella che circonda la città comminciando dalla parte di tramontana fino in ostro, cioè dal castello fin al baloardo chiamato Cittadella, che è un spazio di due terzi di miglio et è della medesima larghezza, è vero ch’ella è in più luoghi ruinata, per le pietre che vengono levate et rotte dagl’uomini delle galere di generali, proveditori, capitani, sopracomiti et altri provisionali di galera e dai Rettori di Zara, per cavar datili marini che si nutriscono entro. Onde saria bene rinovarle et provveder che più non si ruinassero, come abbiamo fatto noi.
Più presso alla muraglia vi è un’altra purpurella della medesima sorte, per riparamento della muraglia et delle fondamenta, le quali ostano a tutte le gelere et altri legni da mare che si volessero apprestare alle mura della città per batere, di maniera che da quella parte di mare rendono la fortezza inespugnabile. Il castello poi che giace alla bocca de porto antedetto, che saria meglio riempito di terra et fatto un gagliardo cavaliero, che sparagnaria tanta spesa sto cavaliero, senza che sia impedito da nessuna altra eminenza vicina, che egli possa mettere da quattro parti, cioè levante, tramontana, ponente et ostro, di modo che guarda il porto d’ogni lato; e perché per lo castello s’entra per la portella del soccorso, il quale è verso la marina fuori delle mura della terra, saria siccuro partito tenerlo serrato et aprir quella porta ch’è dentro la terra, per rispetto di qualche neccessità che potria occorrer la notte, con pericolo di perder ad un tratto e la città et il castello, com’è stato per noi ordinato. Nel qual vi stanno due Castellani nobili veneziani, che lo custodiscono alternativamente, cioè un dì uno et un dì l’altro, non partendosi dalla detta custodia né giorno né notte. È vero che colui che non gli tocca la guardia quel dì è esente, ha libertà d’uscirvi il giorno ma non la notte, da che nascono molte discordie fra loro, che potria tornare a danno publico. Onde ottima provisione saria redurla in un Castellano solo, assegnandole il salario d’ambi due. È guardato il detto castello da 31 soldati da guazzo, da due contestabili, da un bombardiero, da un capo di soldati e vi sta un capellano, che tira una paga compresa nelli 31 soldati, quali hanno di paga lire 13 ogni 45 giorni, li contestabili ducati 48 all’anno, il bombardiero ducati 40, il capo ducati 32, le quali spese ascende ordinariamente ogni anno a ducati 1.000. E perché tali soldati per la maggior parte sono vassali, saria bene provveder che, ovvero mancando uno non si sostituiscano altri, che in questo modo si andariano consumando, et in luogo di questi si metteriano soldati di compagnie buone, che in caso di bisogno sariano atti a difendere il castello, ovvero del tutto cassarli, assegnandoli altri luoghi per sostentamento suo et altre guardie così non importanti. Alla volta di terra ferma, cioè in ostro, è una porta guardata continuamente da soldati 26 di compagnie, perché di 80 fanti che stanno alla custodia di Zara, cioè 50 sotto il governo del magnifico e strenuo Bruto Glujon, governator in quella città, et 30 sotto l’insegna del strenuo capitano Giulio Dolce, si fanno tre gardie, tre squadre di soldati 26 l’una, le quali squadre stanno 8 giorni in fattion et 15 fuori. La notte poi questo numero di soldati 26 si divide in cinque corpi di sentinelle, che sono attorno le mura cinque per corpo, nelle quali 80 soldati et suoi capi la Signoria ogn’anno d’ordinario spende ducati 2.500; et oltra questi soldati delle compagnie stanno ancora alla guardia di essa porta soldati da guazzo numero 24, separati dagl’altri, et fanno le loro guardie nel restello di fuori della porta et anche la notte stanno nelle sue sentinelle separatamente e sono governati da un capo, il quale ha di paga lire 81 ogni 45 giorni, sono superflui et costano alla Signoria all’anno ducati 600; li quali medesimi sono assegnati altri 24 alla custodia della piazza, sotto un altro capo et un altro contestabile, li quali tutti hanno di paga solamente lire 11 ogni 45 giorni, perché il resto fino alla summa di lire 13, cioè 830 per cadauna paga, vano di capo soldo come 810 a San Marco et ducati 20 al capo, il quale poi è obligato fornirli d’arme, la quale è usura et utilità illecita del capo, contro gl’ordini et da me non esser soportata, la qual spesa importa ducati 600 all’anno. E perché alla custodia della piaza non è altra guardia che di si fatti soldati, si doveva provveder che alla piaza vi stesse un numero di 10 soldati almeno, per ogni tumulto che potesse nascer, come altre fiate è accaduto, per ogni buon rispetto, essendo loro inutili et di poco valore.
Questa loro provvisione potria farsi in due modi, il primo saria crescer altri 20 fanti nelle compagnie di quelli 80 che suppliriano ad ogni luogo, il secondo saria che quelli 80 che sono partissero le facioni in altro modo, che sono partite, et vi è modo conveniente et che li soldati la potessero durare, che saria partirgli 80 in due parte, otto giorni per parte, come si usa in tutte le altre città.
Quella parte di terra ferma, oltre il numero di soldati che la custodiscono, è difesa dal nuovo beloardo detto Ponte, ben fabricato, non però del tutto fornito, il quale è gagliardissimo e sta cavagliero tra levante et ostro, ma vi manca quasi un quarto da formarlo, non però ancora è posta in tutta fortezza et sino ora vi è stato speso ducati 8.000, al quale mancano le canoniere, ch’è l’anima di si fatte machine, che quando si fabricava si sono scordati di fare, et il parapetto, nelle quali due opere andavano più di 15.000 ducati di spesa, oltre che anderà di male una man di muraglia per farle. Vi è l’altro baloardo chiamato Cittadella, non fabbricato ancora, ma compiuto di terra, di modo che sta cavagliero alla marina in ponente et alla terra ferma in ostro, il quale va anch’egli portato fuori in mare circa para 30 e più. V’è medemamente l’altro balloardo, che si dimanda San Marcello verso levante, il qual si fabrica tutto, ha nondimeno tanta eminenza di terra, ch’è cavagliero, et batteria benissimo da quella parte il nemico che si volesse accampar sotto per offender la città. Sono ancora altri bastioncelli di terra postizi, sopra li quali (bisognando) si può metter a segno l’altelaria, sin a tanto che si fornisca di fabricarli secondo il disegno, perché sono cavaglieri a nemico che volesse offender la fortezza da quella parte. Le monizion veramente che si tengono in quella fortezza sono mal all’ordine, come l’archibusi, piche, spade, coraze et altre arme, così da mano come da dosso, e polvere, la quale è al presente in alcuni barili marci, ond’è da provedere che ella sia affinata et riposta in nuovi barili, cosa necessaria, che spesso sia rivveduta, né vi è chi la governi; onde saria per avventura bonissimo riccordo, che un spadro o qualche altro che s’intendesse tenesse nette e ben governate quelle munizioni, con dargli di quelle paghe che torrano li soldati da guazzo. I biscotti medesimamente non sono tenuti come si dovriano governare, l’altelerie sonovi assai buon numero et belle, ma non è luogo particolare dove stiano apuntate, perché nel luogo dove sono si pongono alberi di galee, antena et altre cose di marinerezza, che non stanno bene confuse, onde era da provvederle di un luogo separato, come è stato per noi provveduto et ordinato. Il valoroso Bruto Glujon governator di fortezza si dimostra diligente, così intorno il governo dell’altalaria, come di soldati et d’ogn’altra cosa, che s’appartenga all’officio suo e la sua compagnia è di fanti 80, bellissima et onorata, et quella del capitanio Giulio Dolce è convenientemente all’ordine e buona, et è di fanti 30, oltre le quali compagnie di fanti et oltre li soldati da guazzo sono in Zara la compagnia de cavalli leggeri, sono Harvati [Croati] e Levantini, ma prima è d’avvertire che nelle compagnie di Harvati non si può rimetter alcun Levantino né alcuno che sia del territorio di Zara, e parimenti nelle compagnie de Levantini non si può rimmetter né Harvati né paesani. Quelle di cavalli 64 sono sotto messer Nicolò e messer Lombardia Derici, gentiluomini di Zara. Di cavalli 47 sotto Pelegrin Dimano [?] gentiluomo di Zara. Di cavalli cinque sotto conte Vido di Possedaria. Di cavalli quattro sotto il capitano Dimarich. Di cavalli cinque sotto Francesco Civaletti gentiluomo di Zara. Di cavalli tre ... . Le compagnie de Levantini sono di 64, quella di Zuanne Badatti è di cavalli levantini 10. Di Zuanne Renessi è di cavalli 15. Di Andrea Renessi è di cavalli 23. Del Lepessi [?] è di cavalli sei. Del capitan Getta Renessi è di cavalli 10. Oltre le quali sono due lanze spezate del magnifico Proveditor di cavalli Nicolò Gripolo una, Zorzi da Risano l’altra, oltre li quali sono in Zara provvisionati a cavallo 15. Gl’eredi quondam magnifico Nicolò Derico ne hanno tre. Li eredi del quondam messer Alvise Detrico tre, Pietro di Rugna due, Polo Bertovich due, Zuanne Bertonich due, l’officio della coleteraria di Zara due e Riamo Scarichen uno, che hanno fra gl’altri carichi obligazione di servir alla camera, quando occorre mandarli per qualche publico servizio, come porta paghe o altro. Fra Harvati et Levantini sono lanze spezate e provvisionati in summa di 145, la qual spesa monta ordinariamente all’illustrissima signoria ducati 5.400. La detta cavalleria è sottoposta al governo del magnifico Proveditor general di cavalli in Dalmazia, il quale fa ressidenza in Zara e cavalca per lo paese con quella cavalleria guardando da Purchali [?] et Martelossi e Turchi, provvedendo ch’il territorio non sia danneggiato, la qual veramente è bella e ben all’ordine d’uomini e di cavalli, potria però esser meglio se li capi fossero meglio a cavallo, il che provviene per lo pocco stipendio e quel pocco dattoli fora di tempo, con disavantaggio loro, essendo astretti tor dai mercanti biave et altre cose, si per sostentamento loro come dei cavalli, per modo più che non vale, di maniera che non vengono a resare i due terzi di netto per l’uso del loro bisogno.
La Camera fiscale di questa città di Zara ha d’entrada 7 in 8.000 ducati all’anno, poco più poco meno, secondo che si vendono i dazi e che si spazan i sali, che si mandano a tor a Pago sino a 1.000 mozza per spedirli in quel territorio e quelli che si spediscono li vendono il dopio di ciò che costano, computando ogni spesa e dalli mentovati dazi che si vendono i più importanti sono: il dazio della beccaria, ch’è di ducati 1.000, il dazio del vin a spina, ch’è di ducati 1.000, il dazio della bolla del pane, ch’è di ducati 500, il dazio del trentesimo, ch’è d’ogni 30 uno, delle mercanzia che vengono a Zara, ch’è di ducati 250 all’anno, gli dazii sono diversi ma di pocca summa. Cava ancora questa Camera una summa di danari da certe isole per terreni e ville che s’affittano ogn’anno al publico incanto, come sono l’isole di Soibo, di Selva e Meleda, che sono tre mani d’isole prencipali e diversi altri scogli, dalli quali tutti terreni, ville e scogli si cava la detta entrada.
La spesa veramente di questa Camera è medesimamente di ducati 7 in 8.000 e quando questa spesa è maggiore dell’entrada, la Camera di Cherso, Ossero e Pago suppliscono, mandando a Zara quella pocca summa di dannaro che bisogna per pagar la spesa sudetta, di maniera che Zara non solamente da nissun utile di dannari alla Signoria, ma egli da spesa eccessiva, come di pagar soldati a piè et a cavallo, per pagamento dei quali vengono mandati da Venezia ogni anno ducati 7.905 lire quattro soldi quattro, di spender un’infinita quantità di dannari nelle fortificazioni, d’affitti di case per allogiamento de soldati. E chi mandasse de legname con pocca spesa s’accommodariano tante stanze che sariano bastani a tutti i soldati, così da piè come da cavallo e si liberaria la camera da questa gravezza, che perciò fa una eccessiva spesa.
Il popolo di questa città è devotissimo verso la Signoria. De nobili è qualc’uno di non tropo sincera fede per esser inclinati all’imperatore, de quali in tutto sono casate e famiglie 17, cioè Detrica, Rosa, Grisogona, Cedulini, Civalelli, Fanfogna, Fumari, Nassi, Begna, Ferra, Soppe, Galelli, Gliubavazzo, Carnruti, Cissana, Pechiaro e Spingarola. Questi nobili vivono amorevolmente insieme, ne vi è altro odio fra loro, solo che fra i Detrici e Civalelli, li quali oltre che sono contrario l’uno all’altro nelli loro consigli, è seguita novamente la morte d’un figliolo di messer Batista Detrico, ammazato da Francesco Civalello, il quale fu poi ferito a morte, essendo noi in Albania, da un servitore di messer Nicolò Detrico, ma scapò.
Fanno questi nobili un conseglio di 70 consiglieri nel quale intervengono li clarissimi signori Rettori, cioè Conte e capitano, et si elegono li sopracomiti, quando così ordina la Signoria, elegono ancora in questo Consiglio, di tre mesi in tre mesi, quattro consiglieri, li quali stanno assistenti al clarissimo Conte quando da udienza et amministra giustizia, alli quali esso clarissimo Conte dimanda loro parere e poi fa quanto li piace, ma nei casi d’importanza, come d’estorsioni, ruberie, di rapti, di monetarii e di ribellione et altre cose atroci, esso clarissimo Conte fa quanto li piace senza tor il parere d’essi, li quali si sentano appresso anco nel publico del rengo [?]. La ricchezza di questi nobili non è molta, per la maggior entrata che sia fra loro è di ducati 400 e 500 e fino a 700, come li Detrici, Rosa, Civalelli et altri hanno entrata ducati 100, 200 e fino a 300, e sono molti di questi nobili poverissimi; i costumi de quali sono quasi Italiani, perché la maggior parte de nobili vive, favella e veste all’usanza d’Italia, il che forse avviene per la frequenza di forestieri, nobili veneziani, generali, proveditori, capitani, sopracomiti et altri, che vi pratticano continamente.
Li populari veramente, se ben hanno quasi tutti la lingua franca, vivono all’usanza schiava tutti e questi non sono del Consiglio de nobili, ma hanno un capitolo, ovvero scuola, nella quale trattano le cose ad essa pertinenti e vivono di qualche pocca entrada, ma per lo più di trafici et arti. La magnifica communità ha dalla Camera fiscale ducati 600 all’anno, con li quali essa paga un medico fisico, un cirugico et un maestro di scuola, due canceglieri et altri suoi ministri, né ha altri beni né altra entrada. Tutta la cità insieme è governata dali clarissimi Rettori, il clarissimo Conte messer Paolo Giustinian giudica tutti li abitanti della città e territorio, eccetto li soldati a piè e provvisionati, li quali sono sottoposti alla conserva del clarissimo Capitanio messer Girolamo Dolfin, il qual tiene le chiavi della città et s’impedisce nelle cose della Camera et in questo s’estende l’ufficio di Capitanio. Li soldati a cavallo veramente sono giudicati dal magnifico Proveditor de cavalli. Questi Rettori presenti, cioè li clarissimi Marc’Antonio Civran Conte e messer Polo Giustinan Capitanio e messer Bartolomeo Bon Proveditor de cavalli sono amati e riveriti da tutta la città, la quale essi governano prudentemente et con ogni diligenza. Il numero delle anime di questa città è 6.536 e gli uomini da fatto sono in tutto 1.168; il quel territorio è longo miglia 93, largo miglia 18 et a luoghi miglia 25 et circonda miglia 100 nel quale sono anime 12.000 et uomini da fatto 1.933, confina con Nabin dalla parte di ponente e con Lovrana dalla parte di tramontana, castelli ambi due circondati da ameni luoghi et fruttiferi et d’ampie campagne, ch’erano la sicurezza di Zara, perché furono già dalla Serenissima signoria et col Benadego paese già del re d’Ungheria et ora del Turco, con i sudditi del qual si vicina assai bene et meglio che si faceva per l’addietro, tutta via essi Turchi, quando se la vegono bella non restano di far sempre qualche ruberia, il qual buon vicinar procede dalli molti presenti e grandi che si fanno a Turchi, et dal 1540 in qua questa camera ha speso in presenti ducati 5.000. Li trafichi sono però liberi da una parte all’altra. Murlacchi portano a Zara formenti, lane, schiavine, cordami, mieli, cera zalla e formazi.
Zaratini gli danno panni, carisie, zuccari, ogli, vini, cere bianche et ogni sorte di speciaria. Tutto questo trafico può importar tra una parte all’altra 13 in 14.000 ducati all’anno. Nella città sono fuochi 1.180. Questo territorio ha pocchi abitanti e quando fussereo in maggior numero si cavaria assai maggior quantità di biave et vini che non si cava al presente, per non esser lavorate le terre, le quali restano inculte, onde il territorio per questa cagione non dà da viver al paese et alla città per otto mesi dell’anno e quei pochi abitanti che sono, non sono del paese, ma Istriani e Murlacchi. Li quali Murlachi al tempo dell’ultima guerra turchesca, per opera, astuzia e valore del clarissimo messer Alvise Badoer, all’hor Proveditor general in quella Provincia, furono condotti dal paese turco per coltivar questo paese et per esser come alli confini del Turco minacciano tornar ad abitar sotto lor, perché i Turchi cercano di esviarli et anco tal volta per questa cagione li accarezzano, laonde sono esenti da ogni facione et a lor vien portato gran rispetto da Zaratini; et delle possessioni che lavorano danno alli padroni delle terre il quarto dell’entrada, che cavano mettendo i contadini le semenze et appresso bisogna farli carezze. La maggior sostanza d’essi contadini è riposta in salvo a Zara e tengono poca robba nelle ville, per dubbio de Turchi, per la qual cagione la loro maggior facoltà consiste in animali, perché dicono che quelli possono salvare e condurre ove a lor piace, che non così delle massericie et altre robbe possono fare più atte e più commode d’esser rubbate, straciate et in poter de nemici lasciate et da quelli a suo bel piacer portate via. Le biave che nascono nel territorio sariano bastanti, quando le galere e tanti navigli che vengono in porto non consumassero le farine et il pane, che continuamente si vende alla scaffa. Vini sono tanti, che danno da bever al paese et anco se ne vende a forastieri in buona quantità. È vero che le vigne son di grandissima spesa, perché è di bisogno zapparle sei in sette volte all’anno, altrimenti dariano pochissimo frutto. Si soleva far ogli ancora in tanta quantità che bastavano non solamente a Zara et al suo territorio, ma a tutta Dalmazia. E doppo che li olivari furono tagliati al tempo della guerra col Turco e che ultimamente si seccorono non si fa più oglio, ma si servono di Puglia et in particolare restano privi di quella entrada, che ascendeva alla summa di ducati 25.000 all’anno. Furono medesimamente in appresso dalle guerre ruinate ville assai, di modo che di 280 ch’erano, ora sono restate 96, delle quali sono abitate 81, per la maggior parte picciole, perché non sono come quelle d’Italia, ma sono appena cinque o sei case per villa per lo più, e nelle isole sono ville 33.
Nona
Nona è città antichissima lontana da Zara 12 miglia, fu già ornata di bellissimi edifici et abitata da molti nobili, ma ora è ruinata et abitata da gente rustica, il che in gran parte procede da una angaria di guardar il campanil, ove sta la notte la guardia ordinaria, che chi loro la levasse faria di nuovo riabitar la città, et è per la maggior parte vacua. Ha il suo vescovo et è governata da un Rettor veneziano messer Gio Batta Gritti.
Giace tutta in marina, fa nondimeno scala in terra per due ponti assai longhi, fabricati di pietra con i suoi volti, per li quali passa l’aqua crescendo e discresceendo secondo il suo corso. Le mura che la circondano girano passa 800 e sono deboli e vecchie, le porte delli due ponti che portano in terra ferma sono guardate da un contestabile con 16 soldati di paghe da guazzo, ben all’ordine e danno spesa di ducati 360 all’anno.
Gli abitanti sono tutti lavoratori di terra e cavano dalli territori loro tante biave e tanti vini che bastano per lo viver di tutto l’anno a Nona et a suoi villaggi, li quali sono 12. Sono per tutto il territorio campagne bellissime da far beni tutti in pianura, le quali quando fossero coltivate renderiano un’estremità di biave, ma vanno inculte per non esser lavoratori a sufficienza. Sono nella città anime 150 et uomini da fatto 30. Nel territorio veramente sono anime 400 et uomini da fatto 100.
Il canale che va a Novegradi comincia da Nona et dalla banda del canale sono le montagne della Murlacchia dette Cattenaudi, per li quali attestano molti et è affermato da scrittori, che questi monti siano un ramo dell’Alpi, che si estende nel mar Adriatico. Questo monte dalla parte di mezzo giorno è tutto sassoso e così aspro che non vi si può camminare, se non con estrema fatica.
Dalla parte verso settentrione è terreno molle et opaco, per la densità degl’alberi e sono verdissimi pascoli. Gli abitanti tutti sono chiamati murlacchi, li quali hanno più tosto aspetto ferino che umano e stanno ascosi appreso le stradde rubando et assassinando i passegieri, e li spogliano e stimano gran laude il far la rapina. Vivono di latte e formazzi, perché tutto il suo consiste in animalli e son gente di fede serviana et heretica et suditi del Signor turco. Sono sporchi e lordi e stanno assieme cogl’animali continumente. Dalla banda di qua del canal è la stradda petrosa e così aspra di longa via che la cavalleria non può cavalcar appresso la marina per un pezzo, onde trovandosi d’Euscochi in terra, non ponno esser seguitati dalla cavalleria fuor della marina. Sono ancor in molti luoghi di quel canal caverne et vallette, nelle quali si salvano quando sono perseguitati dalle fuste, perché giunti a terra in qualche valle fondano le barche et fugono infra terra, né è cosa buona valersi di quelle bracciere armate contro Euscochi, perché sempre averanno la peggio, ma vi vogliono fuste grande, perché in tutti li luoghi anderanno così le grande come le picciole, stante è tanto fondi da per tutto ove pratticano Euscochi, che vi anderiano galere e navi, perché non bisogna pensarsi di prendersi Euscochi se non lontani da terra, né è sicuro partito il smontar et sbarcar gente in terra, perché sempre i nostri averanno la peggior, come più fiate s’ha veduto in fatto, che nel vero sono troppo agili et atti per quei sassi, et questo si dice de tutti i luoghi ove possono andar. Corre quel canale fino per mezzo di Novegradi et per una bocca stretta entra in un golfo che gira circa 10 miglia, il qual verso ponente va verso Possedaria, lontano da Novegradi 13 miglia. In questo golfo verso levante sbocca il fiume che va ad Obrovazzo, lungi medesimamente da Novegradi tre miglia, pericoloso d’andar con li navigli, come nemici, mentre d’ogni intorno è pieno d’altissimi boschi.
Novegradi
Giace Novegradi sopra prommontorio di sasso vivo e dalle parti di ponente et ostro è circondato dal Golfo et aqua marina, il quale è fra l’alti monti, alli quali però il castello di Novegradi è cavagliero, ancorché sia situato nel mezo delle valli, onde è di sito inespugnamile verso la tramontana et levante et la terraferma, dalla qual parte sta a torre alta, che fu spianata al tempo della guerra, et da questa parte ci potria fare qualche offesa alla detta fortezza, perché da quella banda verso levante sono due rivellini, li quali sono come scala al nemico d’ascender al castello, onde bisogneria o ruinarli, perché sono debolissimi, o che si dovria alzarli et empirli di terra per far tutto un cavagliero alto ben munito et perciò più gagliardo. E verso tramontana è un scroco dove sta l’alttellaria, tutto discoperto e senza parapetto, al dirimpetto del qual in terraferma è un sasso posto dalla natura, dove stando coperti li archibugeri del nemico, toriano la difesa dell’alttellaria di modo che non vi potria star né comparir un bombardiero a scaricarla, però si doveria scalpellare quel sasso e fare il parapetto del castello da quella parte, perché il terreno ch’è riposto nel corpo del castello non sta saldo et quando si scarica l’altellaria, manca sotto i piedi, e le ruote che la sostentano si cacciano sotto fino a mezzo, il che avviene perché il terreno è vacuo di sotto e quando fu empito non fu ben ammassato, né vi fu riposto buon terreno, a tale che un tiro d’altellaria lo passeria da un canto all’altro e lo metteria in ruina, perciò bisognaria farli un terapieno saldo e ben ammassato, verso ponente e garbin, è un pezzo di muraglia marza che sta per cascar, la qual bisognaria rifar, per esser di non pocca importanza, nelle quali tutte provvisioni si doveria metter ogni cura e diligenza, per esser questo castello d’estrema importanza et confin col paese turco. Sta alla custodia di questo castello un Castellano nobile veneziano, il magnifico messer Vido da Mosto et il strenuo Giovan Iseppo Burdighezza della Motta capitanio con fanti 20, il quale è diligentissimo et ha assai buona compagnia, il quale è degno d’ogni commendazione. E perché il castello nel quale i soldati stanno a far la guardia è fato di tavole, di modo che quando soffia il vento da borra è portato fin da basso nel castello, a talché i soldati non possono stare alla sua sentinella, perciò è necessario in luogo di quello far un castello di muro. Qual allogiamento di soldati sono così mal all’ordine, che tutti restano pieni d’aqua quando piove, li quali per commodità de soldati si doveriano acconciar. Il forno di cuocere il pane è talmente rotto e ruinato, che non si può adoprare. Alla porta dove si fa la guardia è neccessario far un tavolato, acciò li soldati possino star a dormire e tener l’arme al coperto, le quali stando discoperte si bagnano e ruinano di tal sorte, che nell’occasioni non si possono adoperare.
L’altelleria hanno i letti e le ruote marze, di modo che occorrendo scaricarle andariano in pezzi. La campana con la quale si risponde alle sentinelle è rotta in più pezzi et sta molto male che una fortezza stia senza una campana per risponder alle sentinelle. Al tempo dell’estate patiscono d’aqua grandemente per quattro mesi, cosa alla fortezza di estrema importanza. Non sono medemamente monizioni nella sopradetta e saria bene meterli dentro, cioè polvere et altre cose opportune, et anche qualche quantità di biscoti, acciò ch’in occasion d’assedio o d’assalto i soldati avessero da intratenersi qualche giorno, che nulla vi è, li quali comprano il vivere di giorno in giorno, né si potriano prevaler in quell’occasione di quelli della villa, posta a piè del castello, i quali non possono patir che quella custodia sia data a soldati forastieri, perché loro medesimi la guardavano e tiravano quel soldo, di maniera che sono di cattivissimo animo contro quelli soldati, alli quali non vogliono dar alcun sussidio e reccusano dargli le vettovaglie solite per i suoi dannari, né vogliono portar in castello, come sono obligati, le legne et altre cose, in somma gli usano ogni straniezza, principalmente perché solevano loro stessi a modo suo guardar quel castello in prima, per esser da quelle parti confin del paese Turco, perché perdendosi si veniva a perder tutto il contado di Zara, essendo tutte le altre fortezze nelle mani del Turco, come Carino, Nadino et Lovrana, che sono d’ogn’intorno le frontiere del contado. Si dovria perciò metter ogni pensiero per riparar quella fortezza di Novegradi, perciò che quando il contado fosse nelle mani del Turco, la città di Zara non potria mantenersi senza il suo contado, il quale non solamente è il più bello e il più migliore di tutti li contadi di Dalmazia, ma quel solo è maggior, che importa più, che tutto il resto de territorii di Dalmazia, per esser tutto in pianura fertile e di circuito miglia 100. Lontano da Novegradi 10 miglia, venendo verso Zara, è il castello detto Polisan, nel qual sta un contestabile benemerito et 10 stradioti, di quelli che sono destinati alla custodia di Zara; il qual castello è ridotto di villaggi circonvicini, che ogni volta che presentano scorerie li Turchi o altro disturbo, si salvano subito nel detto castello, nel quale quelle stanze che furono fatte per essi stradioti sono tutte marze e ruinate, per esser fatte di tole, senza coperto di copi, però è necessario coprirle, acciò che non ruinano affatto e che i stradioti vi possano stanziare con i loro cavalli, siccuri della pioggia e del vento. È pure di neccessità acconciar il ponte che va al castello, perché è tutto in ruina, nella qual reparazione al presente pocchi dannari basteriano, che lasciandolo andar di male, vi vorrà poi per neccessità gran spesa.
Sibenico
Alli 5 giugno partissimo da Zara e giungessimo a Sibenico alli 6 detto, il qual luogo è lontano da Zara miglia 50 et avanti che si arrivi si vede dalla parte di levante un scoglio, nominao Mortaro, lontano da Sibenico miglia 12, il quale è della giurisdizione di Sibenico. Questo scoglio è di miglia 15 di circuito et produce vini dolci eccellentissimi et a giudizio universale ogni anno intorno 300 botte et è di ragione di diversi sibenzani.
Sibenico è città antica, fabricata già da malandrini o Euscochi, che vogliono dire, quando avanti l’edificazione d’essa città solevano abitare sopra un scoglio alto, dove ora è fabricato il castello, dal quale come vedevano qualche navigilio discendevano dal monte e con le barche, le quali stavano ascose a piè del scoglio, intorno li quali erano folti boschi, andavano a prender detti navigli, ove col tempo cominciarono a drizzare alcune casette attorniate di certe barchette, chiamate Sibico, dal cui nome fu poi chiamato la città di Sibenico. Questa città a poco a poco cominciò augumentarsi dall’adunazione di questi ladroni; si vede poi, ch’è ruinata e distrutta l’antichissima città di Scardona, nel tempo dell’antiche guerre, molti de quelli abitanti della città si ridussero a questa città di Sibenico, di modo che se ben all’ora non avea niente di città, col tempo l’aquistò et si governò molti e molti anni da sé medesima, senza esser stata sottoposta ad altri principi che ha gli abitanti di sé medesima. Ma non durò questa sua libertà, perché il re d’Ungheria, il qual all’ora signoreggiava la Dalmazia cominciò a tiraneggiare, della qual tirannide, volendosi liberare li Sebenzani, non potendo più sopportare l’insolenze di quelli Ungari usate contro le mogli, contro le figlie e nella propria facoltà, deliberorono sottoporsi alla Signoria, come a prencipi giusti, la onde nel 1412 12 luglio, essendo principe il serenissimo Michiel di felice memoria, vennero alla divozione della Serenissima signoria, facendo venir dentro del porto sei galere veneziane, ch’erano in Golfo, come si legge nel suo privileggio, dal qual tempo in poi tutti gl’abitanti d’essa città, così nobili come plebei, più costanti e fedeli sono stati et sono di sincerissima fede verso la Republica. Questa città è situata sopra un scoglio, nella suprema eminenza del quale è fabricato un castello sopradetto, il quale giace fra levante e tramontana; e se il monte ivi vicino verso levante, sopra il quale è fabricata la chiesa di San Zanne, non gli stesse cavagliero, saria inespugnabile, per la qual caggione si comprende chiaramente, che volendosi far forte questa città, bisognaria tirar dentro detto monte di San Zuanne e fargli sopra una fortezza, le quali due cose non si potriano fare, salvo che con grandissima et eccessiva spesa. In questo castello vi sta un Castellano nobile veneto, il quale ha libertà d’uscirvi il giorno et venir giù nella città, et appresso è custodita da un contestabile, ch’è Gabriel da Crema et ha soldati da guazzo 25, computando il bombardiero, nella spesa delli quali spende l’illustrissima signoria d’ordinario ogni anno ducati 523, li quali paga la camera. Il circuito d’essa città è d’un miglio, ha una porta che va in terra ferma, tra ostro e levante, nella custodia della quale è un strenuo capitanio Angelo Lenado con una compagnia di 30 fanti, tutti buoni soldati et benissimo all’ordine, per li quali la Serenissima signoria ha di spesa ogn’anno ducati 864, et per due bombardieri ducati 80, che son ducati 944, che sono mandati da Venezia; il qual numero di soldati si divide in tre parti, cioè 10 fanti per squadra et ogni squadra sta giorni otto in guardia e 15 fuori. La notte poi tutti questi 10 stanno in un corpo di guardia solo et hanno carico di riveder et d’andar a rivisitar le sentinelle, che sono fatte per quelli della città, così nobili come plebei. I corpi veramente di guardia, dove stanno le sentinelle, sono 11 et poi ogni corpo sono 4 uomini et alla piazza stanno 16, che in tutto sono 60, ogni notte, oltre li quali due capi, un gentiluomo et l’altro populare, che sono eletti di mese in mese per lo Consiglio della città. Detti capi di notte vanno al riconoscer le sentinelle, insieme con li soldati, oltra li quali questa porta di terra ferma è custodita da un contestabile, ch’è Biasio Prichi da Napoli Romagna con soldati da guazzo superflui, mentre fanno le loro facioni separatamente dai soldati della compagnia del sudetto Lenado, de quali la Signoria ha interesse ogni anno d’ordinario ducati 260, li quali paga la Camera. La muraglia che circonda la parte di terra ferma di quella città è antica, alta, senza parapetto di dentro e tutta debole, salvo quella parte ch’è dalla parte di terra fuori al torrione, che si estende in marina verso scirocco, la quale è gagliardissima et ha di dentro il parapetto et di fuori la fossa cavata. Nel scoglio da quella parte di torrione fino al piè del castello detto di sopra, che è dalla parte verso ponente, la città non è circondata da mura, perché la marina gli batte sotto, che circonda tutta questa parte, la quale è sicurissima, perché sulla bocca del porto, lungi dalla città due miglia, è il castello di San Nicolò, fabricato novamente da questa Republica, il quale è fortissimo et inespugnabile.
È fondato questo castello sopra un scoglio tagliato a ponta di scarpelli et è tutto in isola, salvo che dalla parte di sirocco, dove è un poco di spazio di pietra viva e va in terra ferma, la quale secondo il dissegno fu levata e scarpellata in modo di fossa. La forma di questo castello è triangolare et ha tra corpi di guardia, il primo è tra ponente et tramontana appunto sulla bocca del porto, questo è un bastion bellissimo in forma rottonda e gagliardissimo a cobatter i nemici et a guardar tutta la bocca del porto. Da questo baloardo alla ponta, ch’è in ostro, sono passa 100, la quale è in forma aguza e da questa all’altra ponta, ch’è in levante, medemamente aguzza, sono altri passa 100, e da questa al bastion sopranominato sono altri 100 passa, di modo che tutto il circuito è di passa 300. Al dirimpetto di quel bastion è un poco di piazetta et una chiesetta et all’altra parte, verso levante et ostro, è una cisterna d’aqua perfettissima, la qual non vien mai meno, è una lozetta, ch’è il corpo di guardia.
Nel restante sono li alloggiamenti del magnifico messer Benetto Bellegno, Castellano, e dei soldati et questa è tutta la parte di sopra; sotto li volti poi sono le case matte benissimo intese e tanta capacità di luogo vacuo, sotto li quali battono il porto in pello d’aqua, quando sono quelle di sopra, laonde in caso di bisogno, nella detta parte di sotto, si teneria un’infinità d’ogni sorte di monizioni. La porta del castello è da basso et guarda verso Sibenico, cioè verso levante, ma per ora si tiene serrata et si servono di una porta pustizza in sirocco, cioè in quella parte ch’è congionta con la terra ferma, sino che si compiscano le fabriche d’esso castello, nel quale, come si è detto, sta un Castellano nobile veneto, con pena della testa di non uscir mai, alla cui custodia è il capitanio Pompeo da Pompei veronese con una compagnia di fanti 25, li quali costano ogn’anno alla Signoria ordenario ducati 144 [forse 744], il qual numero non è bastevol a guardar detto castello, perché, non mettendo in numero il caporal, due ragazzi, il tamburino et il capellano, restano di 25, 20 solamente e questi si dividono nelle facioni in due squadre, cioè 10 per squadra, li quali 10 si suddividono in due corpi di guardia, cioè 5 per uno, a tal che uno dei tre corpi resta senza esser guardato, la onde è neccessaria cosa crescer questo numero de fanti, accioché il castello di tanta importanza sia ben custodito.
Provvisioni che si devono far in questo castello sono: cavar la fossa dov’è la terra ferma in sirocco, nel qual cavamento andarà spesa grandissima, perché bisognerà farlo a punta di scalpelli, essendo tutto scoglio e sasso durissimo; et appresso far li corridori in castello, per potervi andar intorno et diffenderlo quando occorresse; et da basso verso levante et ostro far le cannoniere che mancano; et munirlo di tutte le cose neccessarie, che dall’altellaria in poi non vi è altro. Passata la bocca del porto et questo castello, s’entra nel canale che conduce a Sibinico, il quale è fra monti di scogli. Verso la parte di ponente, lontano da Sibenico un terzo di miglio, vi è due torrette, cioè un per punta, dove soleva esser la catena al passar entro nel canale di Sibenico, et sono tenute più per sicurtà de villaggi ivi vicini, gl’abitanti de quali, in tempo di corrarie e guerra, si salvano in esse torrete, che per altro. È vero, quando non vi fusse il castello di San Nicolò su la bocca del porto, come è detto, queste torrette si potrian fortificar meglio che non sono et dall’una all’altra si potria tirar una catena e serrar il porto, di modo che non potria passar alcun naviglio o barca per danneggiar Sibenico, ma perché vi è il castello di San Nicolò, saria forse buona cosa distrugger esse torrette, per beneficio della Serenissima signoria et per maggior sicurtà di Sibenico, perché essendo deboli, immunite e mal guardate potria esser da quella parte offesa, potendo facilmente esser occupate dai nemici, il che al tempo della guerra, essendo prevveduto dal signor Camillo Orsino, all’ora Proveditor in quella Provincia, era d’oppinione di minarle et diede principio di buttar giù una parte d’esse. Però vi stanno due castellani con sei soldati da guazzo, inutili e decrepiti, per cadauna. Nella piccola è Cornelio Marcello napolitano con paga di lire 50 al mese e nella grande Marolli Martini da Napoli di Romania, come sustituto di Pellagra sua moglie, con paga di lire 40 al mese. Sono poi li caporali e detti soldati da guazzo, li quali paga la camera, le quali spese sono tutte superflue, come l’altre di tal natura. Uscendo poi dalla bocca di queste torrette s’entra nel canale che circonda la metà d’essa città di Sibenico, cioè tutta la parte di ponente, il quale canale s’estende in su verso tramontana fin a Scardona, dove rientra la bocca del fiume Chercca, ovver Clanco in lingua dalmatina e latinamente Titio.
Questo luogo di Scardona, avanti le prime sue rovine, fu città suddita al re d’Ungheria, è stata dopo alla divozione della Republica et ora è signoreggiata dal Signor turco, per poca cura de capitani veneziani al tempo dell’ultima guerra turchesca; è lontana da Sibenico miglia 10, ha poche case e quelle poche che sono tutte di tavole, di maniera che questo luogo si può dir distrutto, pur è fabricato di nuovo, ma legermente e può esser 400 passa di circuito, la cui nuova fabrica è fatta da Turchi et è in forma triangolare. Verso levante ha una porta che s’estende fuori alla marina o più presto mischio d’aqua dolce e salssa. In terraferma ha un’altra porta verso ponente et un’altra verso tramontana e quella parte che si estende in terra ferma è situata in alto e giace in scoglio.
Come è detto di sopra questo luogo è triangolare et ha tre corpi di sentinelle, cioè per ogni porta uno, di modo che questo luogo non è più di tanto forte e potria esser da una parte battuto facilmente e ruinato dalle gelere, mentre è di poco momento.
È a quel governo un desdaro, ministro turchesco, et vicina assai amorevolmente coi sudditti veneziani, ma quello che più importa è la valle di giurisdizione di essa città di Scardona, la quale si estende per ponente e tramontana miglia 40 et la maggior parte è fruttifera. Due miglia più in su di Scardona sono li molini della giurisdizione di Sibenico, alli quali si va per esso fiume Titio. Il quale è profondissimo et largo un quarto di miglio e discende dalle parti di Croazia et ha doi capi, uno che vien da levante e l’altro da tramontana, ma prima che questi due capi si uniscono e che toccano il territorio di Sibenico, fanno due cadute, sotto le quali sono due porte de molini, una del Turco, l’altra della Serenissima signoria, sboccando poi insieme in una valle tra altri monti et fanno un lago, dal quale discendono per certi dirupi d’un monte, dipartito in due parti, che portano un infinità d’aque, et con un soavissimo mormorio et con una vaghezza mirabile, che rende bellezza a riguardanti. Questo monte dipartito per i dirupi, del quale discende l’aqua, fu, et non è gran tempo, un istesso, ma una gran quantità et estrema furia d’aque, con cui discese giù dalli monti nevi assai, con tanto impeto che dipartì il monte, onde le barche che scorrono per i dirupi sono medemamente dipartite, cioè una parte viene a discender verso levante e l’altra verso tramontana. In levante sono li molini della Serenissima signoria, cioè dalla banda di Sibenico, et in tramontana, dalla parte di Scardona, sono quelli del Turco, in mezzo vi è un’isoletta, ove per commodità delle barche et altri navigli vi è un molo di pietra, longo forsi passa 200 largo passa 20 in circa, tutto della giurisdizione veneziana. In capo quel’isola questi due capi s’uniscono et fanno la fiumara così nobile, come s’è detto, la qual va a Scardona, dove si mischia con l’aqua salsa. Questi molini sono affittati dalla communità di Sibenico per ducati 17.000 al’anno in un corpo istesso, cioè in una casa sono nove ruode da macinare, a sudditi veneziani et in un altro corpo sono tre altre da macinare a Morlacchi sudditi turcheschi, e cadauna di esse ruode macina 30 stara veneziani tra il giorno e la notte. Oltre quelle che sono 12 in tutto, sono nuove rode da folar panni immediate fuori della casa de molini, alla custodia de quali, oltre li dacieri che vi stanno di continuo, sono un conestabile et un bombardiero pagati dalla Camera di Sibenico, et altri quattro soldati pagati dalli dacieri. I molini del Turco hanno due corpi di case, ma di tavole, et in tutto sono ruode 7, li quali però non macinano con quella velocità che fanno le sopradette, per non esser fatte con quell’arte che sono li predetti, dalla qual invidia mossi i Turchi, accioché i Morlacchi suoi sudditi, li quali confinano da molte parti col territorio si Sibenico, non vadino a macinare a molini veneziani, s’hanno posto in oppinione di voler costruire un ponte (contra le capitolazioni) che traversi il fiume della sua banda appoiandolo sopra la giurisdizione veneta, per lo qual li Morlacchi possono a lor beneplacito passar a macinare a suoi molini, per tirar a sé tutta quella utilità; et che quei sudditi turcheschi che sono dalla parte di Sibenico, non possino passar il fiume per andar ai molini veneti, il che quando fusse loro permesso, saria grandissimo danno ai molini della Serenissima signoria; oltrecché essi Turchi indebitamente hanno occupate quel’aque e quel luogo da far detti suoi molini, per esser ivi giurisdizione di Sibenico. Dissegnano ancor essi Turchi fabricar una fortezza appresso li suoi molini sotto un monte, dove dicono esser stata altre volte e già hanno condotto una gran quantità di pietra e calcina, minacciando di voler condurne ancora per tall’effetto, onde buona deliberazione saria, esequendo i detti capitoli, impedirli questa fabrica e levargli detti molini, ovvero con pochi dannari comprarli, come fecero altre volte partito di volerli dare, altrimenti facendo i Turchi questa sua fortezza s’impadronariano di tutti i molini, come minaccianno di fare, il che saria la total ruina di Sibenico e danno d’altra città et luoghi di Dalmazia, li quali concorrono a macinare a quei molini, li quali sono in ottimo stato et degni di conservazione, per benficio publico et privato. L’aqua del sudeto fiume Litio naturalmente è così fredda, che ha tanta forza, che ha proprietà di generar tufo, che mettendovi dentro legno o canna o altro, lo copre tutto in poco spazio et in un termine di un anno li fa una coperta assai grossa, et tanti anni quanti il legno sta in aqua, se gli accrescono tante coperte, le quali si vedono a guisa divene, di maniera che il legno o canna tufati et impietriti ne abbiamo veduto assai con gl’occhi proprii et toccati con le mani, cosa degna d’osservr e da tenerne memoria.
Alla custodia della qual città, oltre i soldati a pié sopranominati, sono soldati a cavallo 60, cioè cavalli levantini 18, della compagnia del strenuo Dimitri Lascari 35, del strenuo Teodoro Teodossevich cavalli 3, Paolo Tutavaz cavalli 4, li quali sono di spesa ordinaria all’illustrissima signoria ogni anno ducati 2.264.
Questi capitani, così Levantini come Hervati, con tutti questi cavalli alla legera cavalcano quand’è bisogno lo territorio, acciocchè non sii dannegiato et ruinato da Euscochi, Murlachi e Murlachazzi, quali sono sudditi turcheschi, ma forosciti, onde scorrono spesso a quei confini rubbano, depredano et conducono via anime, le quali vendono a Turchi.
Nella città sono in tutto anime 8.223 et di quelli uomini da fatto 1.210, foghi 1.274. Nel territorio e scogli sono in tutto anime 8.000 et di quelli uomini da fatto 1.200. Case nobili 60, pocchi ricchi e molti poveri. Dei popolari alcuni hanno assai buona facoltà, ma la maggior parte sono poverissimi. Tra le case nobili sono molti odii intrinsechi e scoperti et male volontà. Tra li nobili e popolari è odio antico e maligno, per cagione de tanti nobili che furono ammazati dai popolari per causa delle donne populari, le quali erano oltre misura infestate e molestate da loro, massimamente dai giovani. La communità non ha entrade particolari, ma la Camera fiscale è obligata pagarle un medico fisico, un cirugico, un speciero et maestro di scuola, i giudici, consiglieri, ufficiali et altri suoi ministri. Nel Conseglio sono admessi tutti i nobeli, purché eccedono l’età d’anni 18, sono ancora alcuni popolari, quali furono eletti in Conseglio, avanti che furono commessi gl’omecidi nei nobili, ma estinti che saranno questi che vivono e che sono oggidì, nel numero de consiglieri non può esser ammesso alcun plebeo, il che è per terminazione dell’eccelentissimo Senato.
In questo Consiglio s’elleggono, di tre mesi in tre mesi, tre giudici della corte maggior, li quali giudicano insieme col clarissimo Conte messer Filippo Bragadino et hanno lire 20 al mese di salario. Si fa elezion di tre altri giudici della corte minor, li quali hanno lire 15 al mese et giudicano ogni summa di dannari, le cui sentenze vanno in appellazione al clarissimo conte. È creato da questo Consiglio ancora il sopracomito, quando così è commandato alla Serenissima signoria. Li costumi, li abiti, il parlar e le prattiche di questi Sibenzani sono tutti all’usanza schiava. È vero che quasi tutti hanno la lingua franca e qualche gentiluomo veste all’italiana, ma sono rari. Le donne tutte vestono alla schiava e quasi nissuna sa parlar franco. Li traffichi della terra sono fra poche persone, perché non sono oltre 15 marcanti che faccino qualche buona summa di mercanzie, benché vi sono assai che faccino qualche traffico per travagliarsi, ma il traffico e commercio natural che hanno questi da Sibenico è con murlacchi sudditi del Turco è grande, è l’utile, è neccessario. È grande, perché importa più di ducati 50.000 all’anno. È utile, perché il publico et il privato ne sentono commodo. È neccessario, perché questo commercio, quando fusse levato, Sibenico non solamente patiria, ma saria totalmente sua ruina, perché se i Morlacchi non portassero da vivere a Sibenico, come formazzi, carne, formenti, miele, lane, schiavine, cere et altre cose assai, li Sebenzani non averiano ove prevalersi. Estragono poi da Sibenico questi Murlacchi ogli, speciarie, vini, panni, rame, cere bianche, zuccari et altre cose assai, il che da grandissima utilità a tutti i particolari della città. Estragono ancora sali in grandissimo quantità, la gabella de quali è fabricata in capo del porto verso sirocco per commodità delle saline, che sono ivi vicine, con li suoi magazeni, ove tutti li sali si ripongono et ove i Morlacchi vanno a comprarlo et questo per convinienti rispetti fu ordinato, perché vengono alle volte 600 700 murlacchi nella città, con pericolo che qualche giorno non facessero qualche insulto dannoso e vergognoso, e perciò ivi medemamente è fabricata una casa per stanza dell’emino turchesco, che al presente abita nella città, che non sta bene, per le sopradette cagioni, che un personaggio stanzii nella città de confini et prattichi continuamente con cristiani, il perché bisogneria oprare che si esequisce la mente dell’illustrissima signoria; sopra le quali saline tiene il gabellotto un capitano, per non esser defraudato e che solecita far del sale, et un soprastane, che tiene netti tutti i canali, et due misuradori; il qual gabellotto riceve il sale alle saline ingordamente dalli padroni, con una misura a pala battuta, e lo vende a pala piena, che viene a crescer 10 per 100 per conto di San Marco, ma al gabellotto predetto viene molto più, perché i misuradori consegnano il sale al gabellotto alle saline ingordo, non danno del suo, né vi sta alcuno sopra, poi lo fanno perstar bene con lui, alli quali padroni San Marco paga detti sali a ducati … il cablo e lo vende poi aspri … che sono ducati … per conto delle quali saline la Signoria ha di spesa ordinaria ogni anno ducati 3.050, la metà del qual dannaro, che si cava dai sali, è della Signoria e l’altra va al Signor turco, il cui agente o daziaro, che sta di continuo nella città, scuode questi danari et il dazio intero di tutte le robbe che portano i Murlachi a Sibenico, ch’è un marcello per somma.Questo commercio fu patuito per li capitoli fatti fra il Signor turco e la Serenissima signoria, essendo ambasciator in Costantinopoli il clarissimo messer Piero Zen, li quali sono di questo tenore.
Che i sudditi turcheschi siano obligati far scalla a Sibenico e la Serenissima signoria all’incontro è obligata dar detto sale et a partecipar il tutto d’esso con esso Signor turco, di maniera che la camera fiscale ne sente gran utilità, perché oltre i dannari che si cavano dai sali, s’affitta il dazio della beccaria per 3 in 4.000 ducati all’anno, e prima s’affittava per poco più di ducati 100, il qual dazio non sarebbe quando li Morlacchi non conducessero dette mercanzie, di modo che oltre questo dannaro che si cava d’essi sali, la Camera fiscale ha d’entrata ordinaria intorno ducati 4.090 in circa, cosicché la spesa ordinaria è grande molto più dell’entrata, ma si suplisce coi danari dei sali, il restante dei quali si spende in fabriche et in far presenti a Turchi, nelli quali del 1540 in qua è stato speso ducati 6.500, et in altre cose che tornano a beneficio della Serenissima signoria. Il territorio di questa città per quadro è lungo miglia 25 et altrettanto largo, computando le marine, scogli e terraferma, ma il territorio di terraferma è lungo miglia 25, ma poco largo, perché a luoghi ha la sua larghezza di miglia due, tre, quattro, cinque e sei e confina a levante la Murlachia, a ponente con la marina, a tramontana col paese pur del Turco, cioè verso Lovrana et in ostro col territorio di Traù. E fu tempo, cioè quando Sibenico era del re d’Ungheria e al principio che venne alla devozione della Serenissima signoria, che sotto l’obbedienza di Sibenico erano villaggi 300, dei quali gran parte furono destrutti al tempo delle guerre e parte tolti da Turchi, ma del territorio vero di Sibenico erano già in tutto ville 105, delle quali ne sono restati 45, e de queste 15 solamente de buone et più abitate, e sono sittuate quasi alla spiaggia della marina per la maggior parte, per esser più siccuri delle robbarie et insolenze de sudditi turcheschi. Il restante del territorio è lavorato per parte de sibenzani et parte de Murlacchi, principalmente Vellia Castello e suo territorio, che fu già datto al Turco per la Signoria ad instanza di Rusten bassà, e non dovevano, perché al tempo della guerra fu abbandonto e da loro preso e abbruggiato, e perciò fu concesso loro jure belli, con li quali si vicina non troppo bene, perché bisogneria farli ogn’altro di presenti a sanzacchi e vaivodi et altri ministri turcheschi. Le biave che nascono nel territorio non sono sufficienti a pascer tutto il paese salvo che per sei mesi all’anno et manco. Ma tutto il tempo dell’anno ne hanno da Murlacchi, che li mantengono di biave, come fa per tutta quella Provincia.
De vini il più degl’anni soprabbondano. Non si fanno più ogli, doppo che si seccorono gl’ulivari, di modo che è mancata una grossa entrata di ducati 25.000 ai particolari di questa città di Sibenico. Sono due nottabili particolarità, una è il duomo, ch’è di marmo bianco tutto, dentro e fuori, e di sopra una meravigliosa architetura l’incastradura è di certa calcina fatta con chiara d’ovo et altre misture (bellissima cosa e meravigliosa) nella quale sono stati spesi ducati 80.000; l’altra degna di commemorazione è una bella piazza con una bella loggia fabricata sopra il scoglio a ponta di scarpelli.
Traù
Alli 22 detto partissimo da Sibenico et arrivassimo a Traù il giorno istesso, il qual passaggio è di miglia 40 fra alti scogli d’ogni banda, ma avanti che s’arriva alla detta città si trova il scoglio di Sant’Arcangelo, dove è buon porto et sopra di esso vi è una villa. Per lo territorio vi sono diverse guardie sopra le cima de monti, per custodir che non venghino li Uscochi e Martellossi, li quali sogliono daneggiar il paese e rubbar anime e condurle in Turchia a vendere. Questa città di Traù è antica, secondo Plinio nel terzo libro capitolo 21, ma non si ha cognizione da chi fusse ella fabricata. È venuta tre volte alla devozione della Republica con intelligenza de cittadini e sono anni 130 dell’ultima fiata. È situata nel canale maritimo che è fra la terra ferma e l’isola detta Bua. È circondata dall’aqua d’ogni intorno, alla bocca del porto verso ponente è il castello, ch’è compreso fra le mura della città. Ha quattro turioni et diffende il porto benissimo. Vi è dentro un Castellano nobile veneziano, il quale ha libertà d’uscire il giorno, et alla custodia sono soldati da guazzo 10 inutili, quali fanno spesa ordinaria alla Serenissima signoria di ducati 190, computando il magnifico Castellano. Monizioni vi sono pochissime e mal tenute. Il circuito di tutta la città è passa 700 in circa. Le muraglie che la circondano sono alte, antiche e senza parapetto di dentro e poco sicure dall’altellaria.
Verso tramontana è la porta di terra ferma, alla quale si va per un ponte di pietra viva fatto a mano, con un ponte levador, ch’è longo passa 60 in tutto, sotto il quale passa l’aqua che fa il canale che circonda la terra. Alla custodia di questa parte vi stanno soldati da guazzo 10, con due contestabili inutili, come gl’altri, li quali costano ogn’anno alla Serenissima signoria d’ordinario ducati 148 lire quattro soldi otto. Al rastello, poiché è un capo del ponte, vi sta il strenuo capitanio Tiberio da Vigo veronese con fanti 20, tutti soldati elletti armati di corazze bellissime, d’archibusi et armadure bellissime, tutti comprati da esso capitanio, il quale è diligentissimo nella custodia della città e nel governo dei soldati, verso li quali è cortese, amorevole e liberale, laonde si può ben dire che felice saria quel principe che avesse li suoi capitani e soldati da guerra pari a questi. Si dimostra questo capitanio di valore e di grandezza d’animo inferior a pochi, anzi a niuno, secondo, avendo soldati ellettissimi, li quali egli intertiene con dargli di capo soldo più di ducati 100 del suo all’anno fra tutti, deli quali la Signoria ha di spesa ordinaria ogn’anno ducati 844, il perché è degno di laude e d’ogni favore. Questi soldati guardano il giorno la porta di terra ferma, ponte e restelo et la notte stanno al bastion di San Barbara e vanno visitar le sentinelle, che sono fatte per li popolari medesimi di Traù in quattro castelli, nelli quali stanno quatro uomini per cadauno. La piazza è guardata da 10 soldati da guazzo con un contestabile, gente inutile, li quali danno spesa ordinaria alla Serenissima signoria ogni anno ducati 238; oltre quella compagnia di fanti et questi soldati da guazzo, stanno alla custodia di Traù stradioti a cavallo 36, li quali tutta volta che Martelossi o altra gente danneggiano il territorio e rubano anime per condurle in Turchia, sono obligati cavalcare per il contado guardandolo d’ogni parte, facendo tutte quelle altre facioni che occorrono per servizio della Serenissima signoria e che li sono commessi dal magnifico Conte e del magnifico Proveditor general di cavalli in Dalmazia, li quali fanno spesa alla Serenissima signoria ogn’anno d’ordinario ducati 1.553 lire due. Questa cavalleria è assai ben all’ordine et è governata da tre capi: Nicolò Vilani, Lazzaro Grimani e Pietro Clada.
Gli abitanti di questa città vivono con costumi schiavi, è vero che qualcun d’essi usa abiti italiani, ma rari, hanno ben tutti la lingua franca, ma nelle case loro parlano schiavo per rispetto delle donne, perché pocche d’esse intendono la lingua italiana e se ben qualch’una intende, non vuol intendere se non la lingua materna. Li nobili sono famiglie 10, cioè Vitturi, li quali hanno origine da Venezia, Andrei, Luzii, Claudii, ovvero Chiudii, Cibici, Celii, Buffalli, Casotti, Quarchi e Mazzarelli, fra li quali è poca ricchezza, e fra essi et i popolari è odio antico et grandissimo, perché non vorriano esser condannati da nobili et sono poverissimi, fuori che tre famiglie, quale si ponno chiamare convenientemente accomodate, rispetto alla facoltà che sono in Dalmazia. Nel conseglio della città non vi entrano se non nobili, li quali hanno auttorità di creare il loro sopracomito, quando così è ordinato dalla Serenissima signoria; ellegono ancora tre giudici, li quali giudicano le cose civili insieme col magnifico Conte messer Lonardo Contarini. La communità attende non solamente a particolari d’essa, ma a tutto quello che concerne al beneficio publico. Non ha entrada alcuna ma dalla Camera fiscale li sono pagati un medico fisico, un cirugico, un precettore, il cancelliere, i giudici, gl’ufficiali et altri suoi ministri.
Tra la città e territorio sono in tutto anime 5.000, nella città sono uomini da fatto 300 e nel territorio 350. La Camera fiscale ha d’entrata ordinaria a ragione d’anno ducati 1.864 lire 5 soldi 8 e più e meno secondo che si vendono i dazi. La spesa medemamente è tanta quanta l’entrada, il che avviene per l’eccessive spese che si fanno in presentar sanzachi et altri personaggi turcheschi, per vicinar bene con loro, ma forse che i Rettori di Dalmazia sono più larghi in far questi presenti che non si dovria, perché con questa coperta, facendosi mercanti, spazzano le loro robbe e vestimenti, con che impetrano facilmente da essi Turchi licenza et auttorità di cavar dal paese quella quantità di cavalli, che chi alle volte desse loro repulso gli faria aquietar grandemente quell’arroganza et superbia turchesca, il che hanno messo in ordenario, di maniera che i danari che sono consermati e spesi da 40 in qua per questo conto, ascendono alla summa di 30.000 duccati, da che viene ch’in questo modo s’arrichiscono et impoveriscono il publico et il privato. Traffici che si fanno in questa città sono pochi e di poca importanza, e se i Morlacchi non venissero alle volte con caravane e con le loro merci, stariano male, con il resto di Dalmazia, di modo che i Morlacchi sono la vita loro, il commodo et il benefficio di quella Provincia, né saria possibile che le città di Dalmazia potessero stare senza la prattica de Morlacchi, la quale è necessarissima si per il trafico, come per lavorare i territori di Dalmazia, per non esservi sufficiente quantità di lavoratori di terre. È ben vero che detti Morlacchi, quali sono turcheschi suditi et lavorano il territorio veneziano, pagano pocca pensione delle terre da loro lavorate e non respondono il giusto et il dovere alli padroni, né si possono astringer così facilmente a pagar per diversi rispetti, et d’alcuni terreni, che sono di rason del dominio, pagano essi Morlacchi il terrarico a San Marco il quarto dell’entrada.
Questo territorio, ch’è abitato da Morlacchi, sopra le terre del quale pagano il terratico è nella giurisdizione e contado di Traù verso tramontana ed è un paese di 18 miglia in circa, tutto in monti e valli, nel quale si seminano grani d’ogni sorte et ivi nascono bellissimi formenti et in buona quantità. In questo territorio, lungi dalla città otto miglia, nella sommità di un monte è un castello detto Sntilo principiato dalla Serenissima signoria del 1502 e poi del 1532 ruinato d’ordine della Signoria, accioché non avvenisse quel ch’avvenne al castelo di Vallino, il quale essendo stato abbandonato da sibenzani nel tempo delle guerre et occupato da Turchi, l’hanno poi in tempo della pace voluto iure belli, quantunque dappoi succedesse la pace, perché questo castello Sntilo è fabricato senza modo, senza misura et in maniera tale che non ha forma di fortezza, anzi di … da legne; è di longhezza senza il sperone di piè 63, il sperone è longo piè 21 e la muraglia è grossa piè tre e mezzo, di modo che può esser di circuito tutto di piè 207. Ha solamente la metà della muraglia fornita, ma senza coperto e senza pur una stanza d’abitatori e senza aqua, è privo d’ogni cosa; è guardato da 12 uomini del territorio e da tre soldati della compagnia del detto capitan Tiberio da Vigo, per dubbio che li Morlacchi non s’impadroniscano d’esso castello e successivamente del territorio, perché egli non è fabricato in buona forma, né si può fornire in modo che in tempo di guerra fusse siccuro, né si puotesse mantenere, oltre che egli non è necessario beneficio né al publico, né al privato, né al principe, né ai sudditi, perché quando Morlacchi o Turchi vogliono venir a danneggiar il territorio, possono venir per molte altre stradde, senza venir perdove è detto castello, il quale volendosi anco fabricar in buona forma, saria di poco momento e si faria spesa eccessiva, onde saria bene spianarlo, mettendovi dentro il fuoco et ammassandovi una gran quantità di legne, accioché consumasse le pietre della calcina, delle quali non si potria cavar utile alcuno, secondo il luogo dove sono, né patiria la spesa nel condrula via. Al dirimpetto della città sopradetta verso levante è l’isola Bua, di circuito miglia 12, alla quale si va per un ponte che traversa il canal marino che circonda la città, il quale è costrutto di pietre gittate nel mare e fatto a man, nel mezzo del quale, ch’è appunto in levante, è un ponte levador per il qule passano le galere, bragantini (levati via i remi) et altri navigli e barche che vogliono andar a Spalato di dentro via. È un altro ponte, ma non levatore, per li quali tutti due sbocca l’aqua del canal, crescendo e discrescendo con grandissima furia. Sopra quest’isola sono molte case da una banda e dall’altra, le quali sono abitate da contadini, che tengono un’infinita quantità d’animali d’ogni sorte, grossi e minuti, et appresso vi nasce una buona quantità di biave. E perché quest’isola è di ragione del dominio, e giurisdizione la mettà di Traù e la mettà di Spalato, perciò quelle camere cavano gran quantità, per lo censo che pagano gl’abitatori d’essa, oltre il dazio ordenario ch’esigono dalle biave, lane, mieli e vini, che nascano sopra l’isola. Cava medemamente la detta Camera di Traù assai buona utilità delle saline, che sono immediate fura della porta di terra ferma verso tramontana, appresso il canale che circonda le muraglie della città, le quali saline sono poche, ma belle; et s’affittano d’otto in otto anni, e se i daziari facciano manco sale dell’obligazione, sono tenuti nell’ultimo anno del suo ratto pagare tutto quello fosse manco dell’obligazione a soldi 12 il callo e se di più parimente sono tenuti a darlo alla Camera per gli stessi soldi 12, e lo vendevano a Morlacchi a 833 il cavallo, e San Marco veniva ad essere defraudato di tutto quel che cedeva a beneficio de Rettori. Abbiamo terminato che nell’avvenire tutti detti sali siano per conto della Signoria et anco abbiamo fatta provvisione e sentenza contro il gabelloto, contro la parte et espressa sua concessione, perché nel magazen furono misurati, in presenza de testimoni, 10 cabli a pala battuta, siccome egli lo riceve al tempo che li sono consignati dalli daziari, e quelli messi da parte e rimisurati a pala crivelada, come si vendono, furono ritrovati cabli 14 e un terzo, che numerando a crescer 43 et un terzo per 100, veniva esser defraudato il publico; resta a dire del territorio coltivato da traurini, ch’è in levante e mezzodì, il quale tutto è longo miglia 20 incirca, ma la maggior parte sassoso, montuoso e sterile, ch’è largo dal canale fino alla sommità de monti cinque in sei miglia, e passata la cima delle montagne s’estende ancora tre in quattro miglia, ma Morlacchi abitano in quella parte. Quel territorio sicuramente, ch’è di Traù verso Salona, è in pianura tutto e la maggior parte piantato di vigne basse, ameno, vago, bello e fruttifero. È larga questa pianura, dal canale marino sino a piè dei monti, che sono milia due fino tre, et a luoghi miglia uno et a luoghi mezzo, ma per lo più miglia due. Sono ville 10, oltre le quali sono sette castelli fabricati a guisa di torre e posti in fortezza, quali sono de gentiluomini particolari di Traù et è il primo di Mattio Dragazi, il secondo delli Stafilei, il terzo d’Alvise Cipico, il quarto di messer Giacomo Cigaz, il quinto pur del Cipico, detto il castel vecchio, et il sesto delli Rosani et il settimo de Vitturi, li quali sono tutti posti alle rive della marina et alcuni sono tutti in marina et hanno i suoi ponti, e dentro d’alcuni d’essi sono assai casette di contadini. In questi castelli si sogliono ridurre gl’abitanti del paese nel tempo di guerra, per salvarsi da Turchi, Martelossi, Euscochi e da chi gli volesse far offesa. Confina questo territorio in levante con Morlacchi, in mezzo di col territorio di Spalato, in ponente con la marina, in tramontana col territorio di Sibenico. Sora il territorio di Spalato, avanti che s’arrivi a Salona, sono tre castelli, sono della condizione sopradetta, li quali sono de gentiluomini particolari di Spalato. Il primo si chiama castello Cambio, il secondo della Badessa, il terzo castello Succhiuraz dell’arcivescovo della città di Spalato.
Questo territorio di Traù rende biave per lo vivere di sei mesi dell’anno a tutto il paese e vi sarebbe abbondanza e soprabondarebbe gl’ogli e li fighi, se non si fossero seccati li olivari e figari, li quali due prodotti davano d’entrata a particolari cittadini di Traù ducati 15.000 all’anno. Andando a Spalato si vedono le ruine dell’antichissima città di Salona, il cui sito è lontano da Spalato tre miglia; in levante confina con i monti, nella sommità de quali vi è il fortissimo castello di Clissa, che fu ultimamente del serenissimo re de romani et ora del Signor turco; in ponente con la marina e tramontana et in ostro col territorio di Spalato, e veramente questa città pare che fusse lunga due miglia e più, secondo che apparono le vestiggia delle muraglie, onde dice bene Lucano:
Qua maris Adriatici ongas ferit unda Salonas.
La pianura nella quale era essa situata è larga dal canal marino a piè del monte più di due miglia, che ben si comprende che il fiume, detto volgarmente Salona et lattinamente Hiiader, il quale viene dalla villa Cucco ivi vicina, sbocca nel mare per mezzo Salona, abbi fatto grandissima atterazione, di modo che il canal marino doveva esser assi più largo che non è ora, anzi dicono gl’abitanti del paese, che poco tempo fa venivano le marciliane grosse fino alla bocca della fiumara et al tempo che ultimamente il Turco assediò e rese Clissa, aveva nella bocca del fiume marcigliane et altri legni in quantità, che ora non saria possibile che vi andassero. Si crede che questo castello di Clissa fusse già castello e fortezza di Salona, ma ultimamente quand’era del re de romani era abitato da certi sudditi turcheschi detti Euscochi, che significa trasfoga, li quali commesso che avevano qualche delitto sotto il Turco suo padron, fuggivano e si salvavano in questa fortezza, come ora insegna, di che saria da provvedere, attente le minaccie de Turchi, il qual castello è inespugnabile, essendo situato alla sommità del monte, di modo che non può esser battuto da alcuna parte, anzi non si può salire se non con grandissima fatica, la onde il castelo predetto se ne sta a cavagliero e da sè stesso si difende gagliardamente da ogni lato, et ora ch’è in poter dei Turchi è custodito e governato d’un desdaro e da un aspago, che vol dir governator e capitanio, con 100 soldati turcheschi, li quali sono pagati dalli utili, che si cavano dai molini che sono sopra il detto fiume Hiiader, li quali con tutto il territorio di Salona sono del Signor turco, per rispetto del detto castello di Clissa, il qual’è poco più lontano d’un miglio da Salona. Questi molini sono a traverso di detto fiume, belli, et hanno 10 ruode da macinare tutte ad una volta e perciò saria ottima provisione proccaciare d’averli, o con danari o con altro mezzo, tenendo viva et in piedi quella prattica già trattata a Cosantinopoli. Salona fu sottoposta all’imperio romano, dal quale fu signoreggiata fin al tempo della sua ruina. Nel tempo poi che vennero i gotti fu distrutta d’Attila, il quale, poiché l’ebbe ruinata, andò alla destruzione d’Aquilea, città nobilissima et antichissima, e partito ch’egli fu di quella Provincia gli abitanti di Salona, li quali si avevano salvati nei monti, andarono parte di essi nel territorio di Zara et edificarono quella città, alla quale diedero nome Hiadra latinamente dal fiume Hiiader, che discorre a Salona, e parte di loro andarono a Spalato, ch’era il gran palazzo di Diocleziano imperatore, il ruinarono facendo delle ruine d’esso molte case, nelle quali abitorono la nobiltà. La grandezza e la magnificenza della città di Salona si comprende dai volti et archi del teatro meraviglioso, che oggidì si vedono nelle grandissime pietre di finissimo marmo che sono sparse e sepolte per quei campi, della bella collona fatta di tre pezzi di marmo, la quale sta ancora in piedi, dove si dice ch’era l’arsenale verso la marina, e dai molti archi di meravigliosa bellezza sostenuti da colonne altissime di marmo, la cui altezza è di un tirar di mano, sopra le quali eravi l’aquedotto che conduceva l’aqua di Salona a Spalato, il quale fu fabricato dal detto imperatore dopo deposto l’imperio, per commodità e contentezza di sua madre, la quale abitava seco nel detto pallazzo. Si vedono appresso diverse ruine e vestiggie di gran pallazzi et in molte bellissime pietre di marmo si leggono molti pitafii antichi, ma il terreno ch’è cresciuto tien sepolte le più belle antiche pietre e le più belle cose.
Spalato
Il primo di luglio passassimo da Traù a Spalato, essendovi gionti quel giorno istesso a disinare, facendo il cammino per terra, ch’è di miglia 13 in circa.
Spalato dunque fu palazzo di Diocleziano imperatore, il quale di soldato privato, essendone morti i due consoli dell’esercito romano in Germania, uno de quali egli ammazzò di sua mano, fu per lo valore, per la liberalità e per la magnanimità ch’ei dimostrò sempre nell’arte militare, da soldati dell’esercito elletto loro cappo e poscia confirmato per lettere del senato.
Onde avendo egli trionfato di questa e molte altre guerre nelle quali restò vittorioso, meritò esser elletto imperator dal Senato e dal popolo romano, e mentre che egli tenne l’imperio, aggrandì molto il senato, ma sopragiunto ch’ei fu dalla vecchiezza, desideroso di riposo, rimettendo la cura del tutto nelle mani della Republica, si ridusse alla sopradetta città di Salona, soggetta all’imperio romano. Lungi dalla quale, un miglio pocco più sopra la cima di un colle, è una villa nominata Cucco della giurisdizione di Salona, la quale fu patria di Diocleziano, ch’era nodaro e canceliere, dalla qual villa discende il fiume Hiiader, che discorre a Salona, della qual fa menzione Lucano ove dice:
Qua maris Adriatici longas ferit unda Salonas, et trepidum in molles zaphiros excurrit Hiiader.
Ma desiderando Diocleziano vivere a sé stesso e non volendo perciò dimorare nella città di Salona, città grande, bella riva e nobile, fabbricò un palazzo distante da Salona miglia tre et altre tante dalla detta villa di Cucco, elleggendo il più bel luogo e commodo sito che fusse in quei contorni, al quale diede nome Spalato, che significa Palatice latice, sive letie, e quivi dimorò buon tempo, dillettandosi a maraviglia della vita rusticale, godendo un beatissimo ozio e vivendo una tranquillissima vita, e quantunque egli fosse molte volte chiamato e pregato con lettere e con imbasciate dal Senato a ripigliar l’imperio, essendo la Republica oppressa da diverse guerre, nondimeno mai volse partire da quel pallazzo fabricato nel suolo patrio, d’alcuni molto amato, il quale dopo la destruzione di Salona fu guastato e ruinato d’Attila, dalle cui ruine molti nobili salonesi, che fugirono il suo furore salvandosi per quei aspri monti, fabricarono molte case appresso il pallazzo, appogiandole alle proprie mura d’esso, come sono oggidì; et dall’ora in poi comminciò ad augumentarsi il popolo, col tempo divenne città, tenendo il nome di Spalato, stando in libertà e reggendo sé stessa sotto il nome di communità, raccomandata alli serenissimi re d’Ungheria, sotto la cui divozione e signoria stettero buon tempo essi spalatini e poscia si diedero in potere della serenissima republica, con i suoi capitoli confirmatigli dal 1420, nel qual tempo quasi tutta la Dalmazia venne alla divozione della Republica. Questa città, com’è detto, è situata appresso la marina in pianura et ha il porto in ostro, o più presto in garbino. La porta di terra ferma è in tramontana. Il circuito è di passa 700 e la metà è circondata dalle mura del detto palazzo antico, comminciando dalla parte di terraferma, ch’è in tramontana, venendo alla pare chè in levante, nelle quali due parti sono torioni 11, così alti e longhi che capivano dentro bellissime camere et a fronte del mare, cioè in ostro e garbino vi sono 40 fenestroni con le colonne marmoree tonde, d’otto pezzi l’una, alti otto piedi senza il piè di sotto et il capello di sopra, li quali erano li fenestroni del portico del palazzo, il quale era amplissimo e longhissimo, ma ora sono ostruiti et servono per mura della città. Nel mezzo di questi fenestroni è un portone corrispondente ad un’altra porta, ch’è in terra ferma verso tramontana, che si chiama port’Aurea, per esser di quattro porte del palazzo la più bella. Nel centro della città dove ora è la piazza nuova e dove terminava il palazzo, sono porte grandi, le quali si chiamavano porte franche, che sono verso ponente, ove stava la guardia di Diocleziano, nel qual luogo fugendo alcuno che fusse stato omicidiale o che avesse commesso altro delitto, era salvo ad imitazione d’assilio romano. L’altra mettà della città, dov’è la piazza, il castello, ch’è in ponente, et il resto delle mura fu fabricato assai doppo e si dimanda terra nova, e quella parte ch’è girata dalle mura del palazzo è nominata terra vecchia. Il tempio, il quale ora è la chiesa cattedrale era in mezzo del palazzo, il quale è fabricato in forma rottonda a guisa di mosca e si chiamava tempio di Giove, nel mezzo del quale era un idolo consecrato alla dea Cibale, il qual oggidì è riposto fuor della chiesa catedrale di sasso marmoreo et ha la testa di donna con le mani umane, tiene una collonna sopra la quale stava il dio Giove. La parte di dietro, cioè il dorso, le gambe e la coda hanno forma di leone. Il tempio è fabricato tutto di pietre di bianco marmoree, incatenate con ferri e piombo e con certa mistura tenacissima in luogo di calcina, fatta, come si vede, di chiara d’ovo e di altre composizioni non intese né conosciute a questi tempi, e sono poste dette pietre in tall’ordine e con si giusta proporzione, che tanto la giravi di sotto quanto di sopra, comminciando da terra fino alla sommità; et intorno di questo tempio di fuora via è una corona di 14 colone, che parono fatte di certa posta e mistura mischia pur marmarea, ma più dura, di modo che non si può lavorare con ferro, come s’ha fatto manifesta prova. Queste sono tutte d’un pezzo, alte piedi 13 e mezzo, con alcune cornice sopra le quali stava appoggiato un coperto, sotto il quale si caminava attorno il tempio. Di questa medema sorte di marmore sono nel tempio otto colonne, alte piedi 16 e mezzo e grosse a proporzione, cioè piedi quattro il più d’essa. Gli architravi, i capitelli e le cornici sono superbissime e di meravigliosa archittetura, alcune delle quali sono consumate dall’antichità, sopra le quali cornici reposano otto altre collonne, alte piedi sette e grosse a proporzione, quattro delle quali sono serpentine e quattro di porfido con i suoi capitelli, architravi e cornici, delle quali è sostenuto il colmo del volto.
In fazza del tempio verso ponente è una piazza non molto ampla, la qual da due parti ha sette archi, appoggiati sopra bellissime colonne della medema sorte, alte piedi 15, et in capo di detta piazza sono tre alti archi, de quali quel che siede nel mezzo è più alto degl’altri due e guardano questi tre verso la marina. Quivi credo che vi fosse una loggia meravigliosa. Questi marmi, porfidi e tante maravigliose pietre furono mandate a Diocleziano da Massimiano imperatore, suo collega, nelli servicii del Senato e del popolo romano, ch’allora teneva l’imperio di Grecia. Sotto il tempio è un luogo vacuo oscurissimo, perché non ha spiracolo alcuno, umidissimo e frigidissimo, di maniera che standovi dentro si sente freddo estremo d’ogni tempo e nel uscir fuori pare apunto un caldo eccessivo, in faccia di questo luogo solevano gl’antichi consultare l’oracolo et accipere responsum, medemamente il palazzo avea tanta capacità vacua di sotto, quanto di sopra, ma dopo che fu ruinato e che delle ruine furono fabricate tante case, è stato empiuto di terra. Nella città è la piazza, il castello e dalla porta di terra ferma prencipia le muraglie nuove verso Ponente et il resto della terra nuova.
Nella piazza è il palazzo del magnifico Conte. Nel castello vi sta il magnifico Camerlengo e castellano, messer Girolamo Zorzi, et apresso vi stanno 10 soldati da guazzo con un contestabile, gente inutile e superflua, nelle quali d’ordenario la Serenissima signoria ogni anno spende ducati 1.405 lire 4 soldi 4. In questo castello non vi è cosa buona, salvo che una torre alta che scuopre tutta la città et ha sopra doi pezzi d’altellaria, senza letti e mal all’ordine e senza munizioni. Alla porta di terra ferma è il capitanio Pompeo Pochipanni bresciano, che ha una compagnia di fanti 25, mantiene cinque fanti nel castel di Salona, tre ad un luogo detto Zernovizza e doi altri ad un altro detto il Sasso, luogo forte ed importanza, di modo che alla custodia della città ne restavano solamente 15, per li quali la Signoria ha di spesa ordinaria ogni anno ducati 744 [?], li quali il giorno restano alla guardia della porta sopradetta e la notte custodiscono la piazza, e quando le sentinelle, le quali si fanno per li cittadini a rodolo, eccettuati li nobili del Consiglio, in otto castelli a quattro persone per castello, cambiandosi di mese in mese, non respondono alla guardia che sta sopra la piazza e chiama le sentinelle continuamente, vanno a svegliar coloro che sono oppressi dal sonno. Oltre di questi fanti a piè sono in Spalato due compagnie di cavalli alla leggera di stradioti, la prima è di cavalli 20 sotto il governo del strenuo Camin Facina, l’altra di cavalli otto del capitanio Manoli Poltologolo, la quale è assai ben all’ordine, et cavalcano di continuo per il paese guardandolo dai Martelossi, Euscochi eTurchi, facendo innoltre tutte quelle facioni che li sono commandate dal magnifico Conte o dal magnifico Proveditor de cavalli in Dalmazia, li quali fanno di spesa ordinaria all’illustrissima Signoria ducati 1.224. I costumi spalatini sono tutti all’usanza schiava, la cui lingua materna è così dolce e vaga, che come dell’italiana la toscana è il fiore e la più nobile e la migliore, così della Dalmazia questa di Spalato tiene il principato, è ben vero che tutti li cittadini parlano lingua franca et alcuni vestono all’usanza italiana, ma le donne non favellano se non la lor lingua materna, benché alcuna de nobile vestono secondo l’usanza italiana. Fra i popolari e cittadini è odio antico et inespugnabile, delli quali le vere famiglie sono: Papali, Maruli, Geremii, Petracchii, Alberti, Maionossevich, Grisogoni, Cindri, Giudici, Tartaglia, Balci, Canuli, Luccari, Gabanich e Nadali. I più ricchi non possedono ducati 200 d’entrada all’anno e la maggior parte sono poveri. I più ricchi de popolari medesimamente non possedono ducati 200 d’entrada all’anno e per la maggior parte sono poverissimi. In tutta la città sono anime 2.490, delli quali sono uomini da fatto 483, nel borgo, ch’è immediate fuora della città, sono anime 583, di quali sono uomini da fatto 100.
Nel lor conseglio non entrano se non nobili, quali di tre mesi in tre mesi ellegono medico, speziale, canceliere della communità, giudici, consiglieri, Sindici della città et altri suoi ufficiali. Ha d’entrata questa communità ducati 1.210, la quale si cava da diversi dazii che sono della communità e ha di spesa ducati 1.042, la quale si fa in pagar il magnifico conte e cancelier, medico, giudici e diversi ufficiali publici, di modo che di detta entrada avvanzano ogn’anno ducati 168, ma il dannaro non si dispensa alli salariati d’essa communità, né in altre spese, se non col mandato del magnifico Conte messer Girolamo Civrano. La Camera fiscale ha d’entrada ordinaria ducati 1.060 all’anno e di spesa ducati 353, di modo che l’entrada è più della spesa ducati 707, avvanzaria ancor più assai quando non si facessero spese eccessive in presentar Turchi, che passano ducati 300 all’anno, che dal ‘40 in qua sono stati spesi ducati 3.000. Il territorio è lungo miglia 15 in circa, largo al più miglia 2, ma la magior parte è in differenza con i Turchi per caggion de confini. Rende biave per lo viver di quattro mesi dell’anno a tutto il paese. Vini sono a sufficienza et ogni giorno moltiplicano le vigne; dopo che si seccorono gl’olivari, ogli non di fanno più, né si raccolgono fichi, le quali erano una parte del nervo [?] dell’entrada d’essi spalatini. Le ville che restarono dopo le guerre sono sette e ridotte alla marina in tutte sono anime 750, delli quali sono uomini da fatto 130. Li Turchi minacciano più presto male che bene, perché essi Turchi cercano sempre d’intaccare esso territorio e sono sinistri nel praticare. Il trafico che ha questa città e territorio con Morlacchi e sudditi turcheschi può importare intorno ducati 24.000, 25.000 all’anno, il che si comprende dal dazio del trentesimo, che s’affitta per la camera ducati 800 all’anno. Questo trafico consiste in mieli, cere, pellami, formaggi, formenti, lane, carne et altre cose che portano Morlacchi a Spalato. E loro estraggono all’incontro carisce, cere bianche, panni, risi, savoni, ogli, lini, zuccari, panni di seda et altre cose. Oltre questo territorio di terra ferma è in mare l’isola di Solta di giurisdizione di Spalato, la qual gira miglia circa 40, la maggior parte di quest’isola è della città di Spalato et s’affitta per essa communità ogni anno ducati 680, una parte della quale è dell’abbacia di Spalato, il resto (che è poco) è di particolari. La maggior entrada che si cava da quest’isola consiste in vini, li quali sono perfettissimi, biave nascono pocche. Legne li Spalatini ne hanno in grandissima quantità. Sono quattro ville sopra la detta isola, ma tre principali, cioè Superiore, di Mezo et Inferiore, nelle quali tutte tre sono fuochi 200 et uomini da fatto 300, è lontana da Spalato miglia 14. Salona casello della detta giurisdizione, alla riva del fiume sopradetto, sopra del quale è un ponte di pietra contiguo alla detta fortezza, alla custodia del quale stanno cinque soldati, tre de quali, che sono: caporale, ragazzo e bombardiere, sono di spesa alla Signoria ducati 65, ove in tempo de sospetti i sudditi del territorio ivi vicini si salvano, nel qual luogo soleva abitar la sopranominata cavalleria, perché più commodamente poteva custodir quel territorio e diffenderlo dalle incursioni e danni che spesso fanno quelli di Clissa, che stanno alla città come ora stanno, onde per beneficio de spalatini saria ottimo partito fabricar la stanza in detto castello, a posta già brusata d’essi stradioti per esser incommoda, in tal modo stariano alla guardia loro deputata vicina a Clissa e sarianno di grande utilità al territorio et il castello saria meglio custodito. V’è medemamente il castello di Vragnizza, ch’è dell’arcivescovo di Spalato, ove è un bellissimo e capacissimo posto, nel qual può entrare ogni gran legno e sicuramente può star ogni armata. In questo luogo solevano esser molte saline, che vendevano gran quantità di sali, ma del tutto sono dimesse e mancate. Vi è anco Xernovizza luogo d’importanza, distante da Spalato cinque o sei miglia, ove si dovria tenere una guardia d’otto o 10 cavalli, perché li Turchi dissegnano, in quel luogo loro commodissimo, ridur tutte le scalle di Dalmazia e stando incostudito, potria da lor esser occupato.
Almissa
Vi è appresso Almissa, castello grosso et abitato, posto sotto una costiera d’un monte asprissimo, lontano da Spalato 18 miglia, sotto le cui mura batte il mare nel qual entra il fiume Cettina, ch’ è abbondantissimo d’aqua e navigabile per tre miglia sopra Almissa. Il cui primo alveo è sopra Sibenico e corre attorno la provincia di Poglizza e poi risponde sopra Almissa, la qual aqua saria di grandissima utilità et al privato et al publico.
L’origine di questo luogo è provvenuto da Greci, e sottoposto fu poi alli ungari, e fu dominato lungamente dal serenissimo re Bello d’Ungheria e poi venne in poter della Serenissima signoria del 1447 al tempo che la reggeva il duca Steffano nominato Hereg. Nella bocca del fiume vi stanno sempre fuste armate, che scorreggiano tutte le costiere della Puglia, che li dava tributo per lo gran spavento e terrore che avevano, ove vi era a quelli tempi due castella, uno per banda della bocca di detto fiume, di modo che non poteva apparire, né entrare in esso, alcuna barca o legno, se a loro non era permesso e questo perché fra l’uno e l’altro era tirato una catena, che serrava la detta bocca.
Il circuito di quel luogo è un quarto di miglio o poco più, sono dentro da 400 fuochi, anime 1.231 uomini da facione 225. Nel territorio ristretto e tutto posto in monte, anzi in sasso, non nascono biave di sorte alcuna, talché non possono viver gl’Almissani una settimana delle biave che nascono nel suo territorio, il quale fa vini assai de quali vivono. Sono diversi i popolari da cittadini, ancorché vi sia pocca civiltà e pulicia, tutta via le case de nobili sono Descovich, Bilichi, Pinichi, Pripcovich, Clarich, Vuiovich e Drasovich. Sono due fortezze in questo luogo, una ch’è il castello ch’è nel centro d’esso luogo, edificato già molti anni, il quale non è molto forte, ma gagliardo per lo sito emminente, tuttavia è di pocca considerazione. L’altro è Starigrado nella cima della montagna che soprasta ad Almissa, il qual è fortissimo et inespugnabile e perciò è chiave di detto luogo et è di grandissima importanza. Luogo datto alla Serenissima signoria da alcuni gentiluomini da San Zorzi, ove vi sono alcuni provvisionati pagati da San Marco, impotenti et non atti a quella custodia.
Questo luogo è di non poca considerazione, ancorché sia di poca utilità alla Signoria, perché è Scala de mercanti che vengono dal paese turchesco, di che tutti gl’abitanti vivono assai commodamente e se questo fusse nelle mani del Turco stariano nella bocca del fiume assai fuste, le quali scorreriano per tutta la Dalmazia né si potria scacciarli quando si cacciassero dentro del fiume. Tre migllia discosto d’Almissa è il castello Vesichio, ch’è quasi appresso il castello edificato da Turchi chiamato Duarnich. Nelli quali due castelli importantissimi la Signoria fa spesa ordinaria di ducati 950.
In questo luogo saria sicura provvisione mandarvi un Proveditore, in luogo di quel che la Signoria menò per grazia a quel governo, che ha di salario ordinario ducati 64 all’anno, come altre volte si voleva mandare, il salario del quale si trazeria, oltre li 64 ducati sopradetti, scansando una parte dei fanti del castello Staringrado, gente da guazzo et inutile, quando fusse meglio fabricato e da miglior soldati, ma da minor numero, custodito et in questo modo la Signoria si sicuraria di quel luogo importantissimo e comodamente e senza interesse publico mandaria a quel governo un suo nobile.
Brazza
Adì 10 di luglio partissimo da Spalato ad hore 21, andassimo a porto San Pietro dell’isola della Brazza quella sera, che sono 12 miglia, la mattina poi seguente montassimo a cavallo et andassimo alla villa di Neresi, luogo principal dell’isola, ove sta il magnifico Conte di detta isola et ivi dimorassimo fino alli 18 di detto mese.
Brazza è un isola di circuito miglia 70, tutta sassosa e montuosa et ha diverse valli, le quali sono coltivate, vaghe et amene, fruttifere e belle, le parti veramente che sono sterilissime sono o boschi o pascoli. Dalli boschi si cava grandissima quantità di legne da fuoco. I pascoli sono perfettissimi per esserre pieni di sabbie, rosmarini et altre erbe odorifere. Sono in quest’isola villaggi principali 12. Il principal luogo, come è detto è Neresi, ove abitano assai nobili, i quali sono obligati solo alle funzioni personali. Fanno detto Consiglio in Neresi alla presenza del magnifico Conte e quando il Consiglio va ad ordine sono da 200 nobili, perché d’ogni famiglia nobile tutti quelli che passano l’età d’anni 18 sono admessi, e di tre mesi in tre mesi elleggono quelli che stanno assistenti al magnifico Conte messer Agostin Foscarini, quando administra giustizia, ma non hanno altra giurisdizione che riccordare il loro parere e fino a certa summa piccola dicono l’opinione sua, perché il magnifico Conte giudica a modo suo. Nei criminali quelli giudici non s’impediscono punto; ma ancorché siano 12 villaggi, questi giudici che si ellegogno sono solamente di sei ville delle principali, che sono Cumazzo Inferior, Neresi, Dol, Prasnizza Superior, Sugliza et Grande et quelli d’una villa sentano un giorno della settimana et quelli d’un’altra un altro di mano in mano. Oltra li giudici creano un sopracomito, quando così è richiesto dalla Signoria, le loro gravvezze non sono altro che una limitazione, la qual è posta fra loro a raguaglio delle sue entrate. Da questa limitazione tra loro ordinariamente cavano reali [?] 1.400 de piccoli all’anno, delle quali la metà è costituita per salario del magnifico Conte et l’altra metà va al Consiglio di dieci e si manda per li Rettori a Venezia per conto di limitazioni, oltre questi dannari di limitazioni si cavano per conto del serenissimo dominio ducati 200 all’anno di due dazii, uno del sale et l’altro del trentesimo.
Questi nobili per la maggior parte sono poveri et i più ricchi non passano ducati 200 d’entrata e pocchi v’arrivano, li altri hanno d’entrada ducati 200 in giù; parlano quasi tutti lingua franca, massimamente i nobili, alcuni de quali e molti vestono all’italiana et hanno buoni costumi. I plebei e contadini sono communemente poveri e per lo più poverissimi. Il territorio non li da biave per lo viver di 9 o 10 mesi, ma essendo ridotti li contadini a miseria, hanno venduto l’animali bovini con quali aravano e governavano la terra, et oltre di ciò non hanno modo di coltivare con quella diligenza et in quella maniera che saria bisogno, per esser le terre di natura poco fertili, ma sassose e magre. Vini si cavano in quantità grande e sono buoni et esatissimi, di modo che oltre il bever neccessario dell’isola, ne vanno a Venezia assai navili et l’armata ne compra assai, a tal che il sforzo et il nervo dell’entrate degl’abitanti di quest’isola è nei vini. Cavano ancora qualche dannaro dai mieli, formaggi, carnami, lane, massime di legne. Solevano cavar gran utilità da fighi, ma doppo seccati i figari restarono privi di quest’utile, ma li ripiantano e già cominciano a dar frutto. Le biave che le mancano estraggono dalla Murlacchia et Craina et ogli di Puglia et ancor formenti. È di buon sollevamento et ajuto a tutta l’isola la pescaggione delle sardelle, delle quli si piglia grandissima quantità ed alcuni di questi nobili danno navigli con li quali navigano per oglio, formento et altre cose atendendo al traffico e mercanzie. Sono in tutta l’isola anime 2.700 et uomini da fatto 600. Quest’isola non è molestata da Euscochi, né da Morlacchi, né da Turchi per non aver vicino né buono né cattivo, sendo circondata dal mare d’ogni intorno, è vero che d’ogni tempo e d’ogni ora ponno esser assaltati gl’abitanti di essa da Morlacchi pocco discosti et potriano all’improviso esser ruinati, rubati et ammazzati, non essendo alcun luogo in detta isola, che sia serrato da mura, dove possano salvarsi, il perché neccessaria cosa sarebbe edificare un luogo cinto di mura, per sicurezza del Rettore e degli sudditi. Intorno tutta l’isola sono porti da sorger vino, fra li quali sono sette bellissimi, ove vicino vi sono fabbricate case a beneficio d’essi porti e sono abitate; gli altri porti da sorger bonissimi ma non abitati. Quest’isola venne in poter della Signoria l’anno 1420 essendo prima stata all’ubbidenza del serenissimo re d’Ungaria, come era il resto della Dalmazia.
Lesina
Alli 16 di luglio partissimo da Neresi et venuti a cavallo a porto di San Pietro, montassimo nei brigantini et venissimo a Lesina a mezzo giorno, che sono miglia 30.
Lesina è un’isola e città che circonda miglia 140, longa 60 e larga 8, di cui parla Plinio e Strabone, ma si dubita se anticamente questa città fusse in questo luogo, ove è al presente, o più presto in un altro che ora si chiama Lesina vecchia, ovvero Cittavecchia, lontana da Lesina circa miglia 20, situata in pianura bellissima e nel ameno più fertile e più vago che sia in tutta l’isola, ove sono ancora molti bellissimi edifici et ove è gran porto da sorger ogni gran legno navigabile et ogni armata, ma assai fuor di mano et incommodo a naviganti. Sono vicino a questo bellissimo luogo due bellissime ville, cioè Ghelssa e Varlosca, nella quale appresso la marina è una chiarissima fontana d’aqua viva dolcissima, che mai manca. In Cittavecchia habitano molti gentiluomini, li quali sono admessi nel Consiglio di Lesina, ove si vede che la città fusse ridotta e rifabricata nel luogo dove è ora, perché è porto più commodo a tutti li navigli che vanno in levante et in ponente, il qual per esser scala commoda a tutti è frequentatissima appunto la marina, la bocca del quale è in garbino et in ponente. Ha un bel borgo in pianura con molte case, contiguo al borgo è la città, sittuata in monte cinto di mure vecchie et tristissime, che girano passa 300. Nel luogo più eminente, cioè sulla sommità del monte sopra il quale giace essa città, è un casello fortissimo in forma quasi quadrangolare, ma non perfetto, perché verso greco ha un rivelino che spinge poco fuori, anzi tirato in dentro, che fa parere il corpo del castello né quadrangolare né triangolare, è questo diffetto del monte, il qual manca in quella parte, il qual però è da sé fortissimo, ancorché da quel lato il detto castello potria esser tormentato dal monte ivi vicino, ch’egl’è cavagliero, sopra il quale è posta la casa della guardia, che sta continuamente per far segno di tutti i navigli che vanno in levante et in ponente e d’ogni armata che si scoprisse; e per esser quel monte angusto, rato e di solo sasso durissimo impossibile saria il condurvi altellaria. Verso tramontana ha un bastione bello, perché da questa banda il monte è assai piano, fino sotto il più del castello, nel qual piano vi potria star buon numero di gente e facilmente vi si conduria ogni altellaria da battelo. Ha questo castelo due altri bastioni che diffendono l’uno l’altro, uno ch’è in levante et in garbino, dov’è la bocca del porto. Sta alla custodia d’esso un Castellano nobile veneziano, messer Marco Sanudo, il quale va giù nella città a suo bel piacimento il giorno, ma la notte non si parte, et appresso vi stanno 12 soldati da guazzo pagati dalla communità di Lesina, li quali li danno spesa ogni anno duccati 320. Questa città o forse più tosto quella che si chiama Lesina vecchia fu espugnata e quasi destrutta da Paolo Emilio e da lui signoreggiata in tempo, come narra Polibio, il quale medemamente fa mencione della regina Teuca di Dalmazia e di Dimitri Fario, dal cui nome per avventura li lattini chiamarono la città Pharo. Fu doppo questa sottoposta agl’ungari, ma prima di tutti la signoreggiò la regina Teuca, poi Dimitri et doppo Paolo Milio et poi il re d’Ungari. Nel qual tempo i nobili della città avevano il governo nelle mani et inssieme reggevano l’isola della Brazza, la quale oggi dì è congionta in spirituale con Lesina, perché l’isola della Brazza e la città di Lesina sono sotto un medesimo vescovo, ma nel resto hanno le sue giurisdizioni separate e separatamente sono governati da suoi Rettori. Venne molti anni a dietro alla devozione della Republica, ma vi stette pocco, pur ritornò di nuovo sotto l’ombra di questo felicissimo stato del 1420. Nella giurisdizione di quest’isola, oltre li molti scogli, è l’isola detta Torcola, lontano dalla città miglia 18, la qual s’affitta all’incanto per la communità per pascolo d’animali et anco per seminare.
Vi è l’isola chiama Lissa et latinamente Issa, lontana da Liesina miglia 18, di circuito miglia 30 longa miglia 15; sopra la quale sono due ville, cioè San Zorzi, con un porto grande, bello e sicuro d’ogni vento, et l’altra è Comisa, la quale è in spiazza et ha bonissime aque vive. Qui si prende grandissima quantità di sardelle, gran sollevamento e sostegno di tutta la giurisdizione. E per non ommetter una particolarità, in un sol giorno presesi 3.000.000 di sardelle. Quest’isola di Lissa è sterile et rende grandissima quantità de vini ottimi, di manieracchè ogn’anno si cava da 50 o 60.000 ducati di vino, mettendo a lire sei la quarta. Habitava in quest’isola predetta la regina Teuca, per esser porto e luogo nel più bel sito della Dalmazia, dove ancora si vedono le vestiggie del suo real palazzo, alcuni pezzi di colmo di pietre marmoree lavorate a diversi modi. V’abitano in quest’isola alcuni gentiluomini della città di Lesina et sono del Consiglio della detta, come è stato detto di quelli di Cittàvecchia. Gli uni e gl’altri avvisati tutte le volte che li cittadini nobili abitanti in Lesina fanno convocare il Consiglio, nel qual entrano da 15 anni in su, escludi i popolari, et di tre mesi in tre mesi creano giudici, li quali stanno assistenti al clarissimo conte, ma non hanno voce di giudicare, se non in cose minute e di pochissima importanza, perché il Conte nelle cose civili giudica a suo modo e nelle criminali non s’impaziano.
Elleggono parimente due altri cittadini nobili et giudici, li quali rendono ragione uno a Cittàvecchia, l’altro a Lissa, per commodità di quei luoghi e di quei abitanti. Elleggono in questo Consiglio un sopracomito et un Camerlengo per administrar l’entrada della communità. Ellegono cancelliere per anni 4, fanno due Avogadori sopra gl’ordini della communità e sopra l’osservanza delle leggi. Elleggono medico fisico, cirugico, speciale, precettore di scuola et altre cariche et ufficiali per il governo della città.
Provvedono a tutti li bisogni di formenti et altre cose necessarie. Le famiglie de nobili ch’entrano in Consiglio sono queste, al numero di 41, cioè Lucii, Bonini, Colombini, Angeli, Lupi, Hettorei, Fasanei, Zanberlini, Gottoffreddi, Candia, Grisoni, Angelini, Scandarbech, Cavalli, Palladini, Baci, Duimivich, Barbis, Gazzari, Barislavi, Petri, Spinetti, Simonetti, Fumati, Viali, Bassa, Bencovich, Lucii, Bernuzzi [?], Lucoevich, Barbich, Taxich, Chischich, Piretich, Giaxa, Stipichievich, Pellegrini, Leporini, Nicolini, Stante e Dehoevich, de quali molti sono poveri et una sola casa de Vidali può aver d’entrada ducati 1.000 e più, le cinque che sono Lucii, Paladini, Colombini, Hettorei e Nicolini possono aver d’entrata ducati 500 all’anno, da famiglie 15 ducati 200 in circa et gl’altri ducati 100 circa, cosicché ve ne più poveri che ricchi. È vero che li popolari sono assai dannarosi per li traffici che fanno. Fra nobili e plebei vi è odio antico et inespugnabile, nato dal desiderio che hanno sempre avuto i popolari d’esser connumerati et admessi nel numero di quelli del Consiglio, et a maneggi della comunità et anco al governo della città. Laonde del 1510 uno de plebei sedicioso sollevò i popolari, li quali giurarono la morte dei cittadini sopra un crocefisso in mano d’un prete sacerdote, onde seguì il gran miracolo, degno d’eterna memoria, che quel sacro santo crocefisso sparse vivo sangue et il prete se ne morì di morte spaventosa e subitanea, tuttavia questi della congiura non restorono d’essequir il pessimo loro pensiero et ammazzorono in due volte molti gentiluomini a furor di popoli, non avendo rispetto de cittadini nel proprio palazzo del magnifico Conte et avanti gl’occhi suoi, la onde per provveder a così enorme misfatto del 1514 fu mandato a Lesina dalla Serenissima signoria signor Sebastian Giustiniano per rettore, che poi fu procurator di San Marco con auttorità suprema, il quale fece morir molti di quei scelerati sediziosi, abbruggiando le case et ponendo gl’assenti in esilio, non mancando punto di quanto conveniva alla giustizia et alli demeriti di si perversi uomini, li quali ebbero anche ardir di far furore nella propria persona di quel gentiluomo, la pazia e rabbia de quali fu poscia conculcata dal valore e dalla prudenza sua, ma perché questa sedizione aveva fondata la radice nell’intimo de plebei, alcuni giorni doppo pululò di nuovo la sollevazione, onde fu mandato il clarissimo Vicenzo Capello Capitanio generale da mare con tutta l’armata, il qual usò medemamente severa giustizia contro li sediziosi, impicando molti sulla forca, ma con tutto ciò pare che oggidì vi è ancora quella sedizione di questi popolari, li quali, oltre che portano odio alli nobili, muovono spesso controversie per interompere o intaccare la giurisdizione de loro Consiglio, la quale essi cittadini confessano averla non manco cara che la propria vita e li stessi figli, vi spenderiano la robba et il sangue, ne è da dubbitare, perciocché in tutta la Dalmazia fiorisce ellevata superbia et alterezza di nobili, la qual’è posta in mezzo dell’ignoranza e della povertà, che sono i due estremi. I costumi lesegnani sono assai simili all’italiana e di gran lunga più che non sono quei dell’altre città della Dalmazia. Molti degl’uomini e donne, massime nobili, vestono all’italiana, gl’uomini universalmente parlano lingua franca speditamente e dimostrano in sé buona civiltà, il che avviene per la continua prattica di forestieri, i quali hanno ivi scala con navigli, e perché quasi tutto il tempo del’anno vi fa scalla in questo luogo l’armata veneziana. Sono in questa città e territorio anime numero 7.100, de quali sono da fazione 1.010, che attendono al trafico, il qual consiste in diverse cose, che possono importar all’anno più di ducati 70.000. Il principal è quello delle sardelle, delle quali si cava ducati 14.000 et s’espediscono per levante e ponente, legnami per barilli fanno venire da Fiume, terra del arciduca; formenti, ogli e legumi non ne fa la giurisdizione, ma si provedono da Puglia, così anco di carnaggi e formenti da Turchia e specialmente da Marcasca. Li si vendono oltre il bevere di tutta l’isola ducati 15.000 all’anno. Sono poi altri traffichi di diverse sorti, che danno utilità a tutta la terra et massimamente lane, sarze, le qual sono le mercanzie delle donne. Si comprende tuttociò da diversi dacii della città, li quali danno entrata ordinaria ogni anno ducati 4.000, delli quali la mettà va in spesa ordinaria, l’avvanzo si spende in diverse cose estraordinarie, come in presentar capitani generali proveditori, in mandar ambasciatori a Venezia, in fabriche, come si vede nelli libri di essa camera, che nell’anno 1552 fu speso d’estraordinario reali [?] 1.624 e questo anno solamente nella fabrica dell’arsenale sino questo giorno reali [?] 14.000 de piccoli e saria utile per l’isole e città operasse che quella communità costumasse di spender e far le cose neccessarie a loro utile, essendo stanzia per lo più l’armata. Questo arsenale è fatto presso la bocca del porto assai bello e capace, di modo che si potria accomodar dentro ogni monizione e cose necessarie per l’armata della Serenissima signoria, mancali solamente il coperto, il solaro, le porte et altre cosette, le quali si faranno tosto. In tutta l’isola non nascono biave per lo viver di mezzo mese di tutto l’anno. Vini in grandissima quantità, perché oltre li vini di Lissa, quest’isola rende più di 50.000 quarte [?] all’anno, dalli quali si cava il nervo dell’entrata di Lesina. Li fichi solevano darli grandissima utilità, ma dopo seccati li figari restano privi di tale vantaggio. È vero però che cominciano a rinovarsi et ora rendono frutto. Quest’isola ora non è danneggiata d’alcuno, ma al tempo della guerra era oltraggiata et infestata da Turchi, per esser pochissima distanza dal capo dell’isola fino a Macarsca e Narenta, luoghi del Turco, ove il canal non è largo oltre due miglia. In tutta l’isola sono villaggi 15 fra piccoli e grandi.
Dulcigno
L’ultimo dì di luglio alle ore 13 passassimo da Lesina sopra la galera del magnifico messer Cristoforo Canal Capitano del Golfo et accompagnato da tre altre galere sue conserve arrivassimo quella sera al scoglio della Maddonna, dove è un monastero di fratti zoccolanti bellissimo et una onorata chiesa, lontano da Curzola un miglio, ov’è un bellissimo e capacissimo porto. Desmontassimo a dormir in terra al detto monasterio, il quale è circondato da una densissima selva, la quale porge una maravigliosa amenità e bellezza ariguardanti, dal qual luogo partissimo la mattina seguente, che fu il primo del mese di agosto, et con una soave tranquillità di mare e di vento passassimo Giuliana, le bocche di Stagno e Mesfi, luoghi pericolossissimi a naviganti l’inverno, corrispondono verso Meleda, vedessimo un’isola amena, guarnita di buon numero di bellissimi casamenti fabricati alla riva del mare, chiamata l’isola di Mezzo, lontana dalla città di Ragusi miglia 12, habitano quivi tutti marineri; gionssimo a ore 20 ad un luogo aperto e bello chiamato Santa Croce pur di giurisdizione di Ragusi, suburbano e luogo di porto, che sono miglia 8 dove dimorassimo quella sera, poco doppo giunti in esso luogo, vennero li ambasciatori della città di Ragusi, lontana da quella città miglia uno e mezzo per terra e cinque per mare, li quali furono due gentiluomini pieni d’affabilità e grata maniera di costumi con vini et valore et posciacché ebbero fatta riverenza al magnifico Capitanio et a noi, per nome della sua Republica, c’invitarono a veder la loro città, né si partirono da noi sino che non arrivò un messo, il quale a nome della Signoria portò un presente che fu di alcune scatolle di confetti, candele di cera, meloni, pesci, cozioni [?] in salata, uva salata, fiori e quattro castrati co’i suoi cozioni [?], il qual presente è usitato farsi a tutte le galere veneziane che sogliono passar per esse aque e così ritornarono essi signori ambasciatori alla città. Sopra un monte che sovrasta alla città sta di continuo una guardia, la quale scuoprendo galere o vascelli armati fa segni alla città. Al Capitano generale per obligazione presentano per una volta solamente una coperta di scarlato da pupa da galera. Alli Proveditori generali, Proveditori dell’armata et altri capi da mar con presenti, come hanno fatto a noi, et alli sopracomiti pur con qualche cosa. Smontassimo quella sera a dormir in terra in un palazzo magnifico di un gentiluomo raguseo posto alla riva del mare, il quale però s’appoggia sul dorso d’un cole ornato di un giardino amenissimo, ricco di marmi, gelsomini, lauri e d’ogni sorte d’alberi e semplici, di due fontane d’aque dolcissime fatte a mano, per ornamento del giardino e commodità del palazzo, et di una peschiera d’aqua marina, che passa per sotto le mura, che la cingono in forma quadra. Sono in questo luogo diversi altri casamenti pomposamente fabricati e tutte ornate di fontane, di giardini e logge bellissime, alcuni dei quali tanto più sono degni d’ammirazione, quando che essendo situata in luogo arrido e sterile, per esservi monti aspri, di maniera che terra che vi è dentro vien portata da luoghi e parti lontane, come di Puglia. Navigando li Ragusei per Savorna [?] de vasselli, ritornando riportavano terra et munivano detti luoghi loro. Li poderi de Ragusei, se bene sono fra monti aspri, però sono coltivati et invignate de vigne basse, cominciando dalla bocca del canal di Curzola, ch’è cavocumano, fino a Ragusi, rendono gran copia di vini, che sono il nervo d’entrada de Ragusei. Stessimo ivi tutta quella notte, il giorno seguente fino a mezodì, a 2 agosto partissimo da Santa Croce et arrivassimo la sera medesima a Cattaro, viaggio di miglia 36, et entrati che fossimo nella bocca del canale che va alla città di Cattaro, scoprissimo Castelnuovo, luogo de Turchi, luogo assai forte rispetto al castello nuovamente fabricato, in forma quasi rotonda di non molto circuito, alquanto sopra quel castel nuovo il vecchio, in luogo più eminente, da un ministro turchesco con ducati 2.000, gloriandosi e tassando [?] la Signoria, che in un sol baloardo spende ducati 40 e 50.000. Sta di modo a cavalier che batte tutti quei contorni, è vero che è posto in luogo che potria facilmente esser minato. Entrando nella bocca a mano sinistra sono alcune saline della giurisdizione di Castel Nuovo, i sali de quali si spediscono alla scala di Risano. Erano all’ora discesi alla campagna ivi introno molti padiglioni e vi era forse un sanzaco per amministrar giustizia a quei popoli et a visitare il luogo; smontassimo quella sera a dormire in Cattaro, poi la mattina seguente s’inviassimo verso Dulcigno, dove arrivassimo quella sera, che si fece miglia 72, quivi smontassi il magnifico Capitanio Canale, per non poter stare ivi quella notte con le gelere, non essendovi porto, ma spiazza, si rissolvé passare in Puglia per trovarsi alla zuffa con alcune fuste barbaresche, le quali erano entrate nel Golfo per danneggiarlo.
Dulcigno secondo l’antica descrizione è città nel principio della provincia detta oggi Albania et per addietro Macedonia et Epiro, perché dalla bocca di Cattaro in là intendevano fosse Albania e di quà Dalmazia, latinamente detta Olchinium oppur anche Collelilium et Colchis, perché i primi fondatori d’essa venero da Colchi da origine boreale del mar Maggiore, quando quei popoli sotto il lor capitano Absirto vennero alla vendetta di Medea. Dulcigno città fu fabricata sopra un promontorio, che si dispicca dalle altre colline che li sono d’intorno, e con due corna, ovvero parti d’essa entra in mar lasciando il terzo in terra ferma, et è intanto circondata da mura, in quanto il sito per sé stesso ricerca, perché a guisa di scoglio sopra il vivo sasso con altri dirupi da sicurezza a sé stessa, avendo da tramontana verso greco il castello, che dalla parte di terraferma in forma di fronte s’oppone alli vicini colli, et avendo la città a dietro le spalle, da quelli la diffende, fra quali è il castello col corno o parte di terraferma, come da un ponte fisso, si partono le due brazia, o corna, che pervengano in mare, li quali ampliandosi vengono a riposare in mare, nel mezzo delle quali giace la città tutta fondata sul vivo sasso, perché il corno che al ponente guarda allargandosi per alquanti passi dal castello, in quella parte che fa angulo comincia ritornare in sé stesso, correndo sempre in forma sferale sopra alte balzzi e grebbani, et altretanto correndo il corno di levante quasi per diametro s’incontra con quel di ponente, li quali poi cominciando ritornare in sé stessi et abbracciando il corpo della città, come doi brazzi destro e sinistro, vengono ad affrontarsi e dove è la torre della Madonna, luoco fortissimo, e San Domenico più basse parti della città sopra il mare finiscono, dove il sito è tuttavia così eminente in quella parte che da per tutto rende l’ascesa innaccessibile. Verso ostro siroco, dove la porta della marina è posta, vi è la vallada grande, la qual lasciando sotto gl’altissimi grabbani una picciola comentura, fra la guardia della marina e la predetta porta della marina, le barchette e fregate tirate in terra si salvano. Si va ampliando poi la detta valle et in circolar forma, pur ritornando, fa il porto capace per molti navigli et la bocca di quello d’ostro Sirocco combatuta, non l’offendesse, dal quale essendo troppo scoperto, non porto ma spiaggia, divenuta mal sicura ai navigli che vi sorgono, benché in sicurissimo porto ridur si potria facendo un molo che si distendesse in mare come a Pirano et altrove. Questa città dunque che dal promontorio discende in mare, si riduria quasi in isola, facendo facilmente un fosso in fronte del castello, comminciando immediatamente fuori della porta di terra ferma verso San Marco tirandolo fino nella valle sopradetta, il che si faria facilmente, essendo da quella parte il terreno molle, di maniera che si caveria con facilità, essendo il castello in quella fronte appoggiato sul tuffo, ch’è frangibile et non sasso vivo, onde cavandosi un fosso assai ampio, si veniria a cavarse quel monte di tuffo et il castello si riduria poco più indentro, dove è tutto sasso durissimo e pietra viva. Oltre di ciò bisogneria fare un bastione più forte a San Domenico, repezzando con poco interesse l’antiche mura che sopra alti grebbani stanno, in modo tale che li soldati che lo difendessero vi potessero stare, perché stando elle come ora sono, non vi si può andare attorno, né starvi alla difesa, et a questo modo questa città saria una fortezza inespugnabile et impossibil saria il prenderla con ogni grandissimo esercito, da che si comprende di quanta importanza sia la città di Dulcigno alla Repubblica, considerando appresso il grandissimo danno che si sentiria quando questa città fosse de Turchi (che Dio nol permetta) perché si faria gran perdita di vittuario che si estraggono dall’Albania per rispetto di Dulcigno, perciocchè quando Dulcigno non fosse, li navigli che vengono da Venezia, da Dalmazia et da altri luoghi a caricarsi non si arrischiariano, perché a Dulcigno si salvano e poscia pigliano avito e lingua, perché dalle scale di Ragusi, Pollona e Vallona, che sono vicine, intendono se vi sono fuste o altro. È ancora Dulcigno gi[?] grandissima stima per rispetto di tutto il dominio dell’Albania, la quale è abitata pur da quelli antichi popoli ancora non ben sottomessi, né obbedienti a Turchi sino al giorno presente, onde in tempo di guerra si potria facilmente ricuperare tutto il resto dell’Albania, già perduta dalla Repubblica, col braccio di detti popoli, che hanno ancora quella ferma speranza di ritornar sotto l’ombra di questa Republica et hanno nel petto scolpito vivo San Marco, perilchè quando avvenisse, quella provincia potria chiamarsi un coppioso granaggio della Republica, perciò si doveria metter ogni pensiero, non solamente per mantenir, ma per fortificar quella città nella maniera sopradetta, avendone più cura di quella che d’ogni altra di Dalmazia, la quale è d’aria temperatissima e sottoposta al sesto clima, come è tutta la Dalmazia e Venezia ancora. È di circuito passa 622, sono in essa 300 fuochi, l’anime ascendono a 1.600 e fra li quali sono uomini da fatto 300. Gli abitatori di essa sono divisi in nobili, cittadini e lavoratori, quali essendo pochi si mescolano con li secondi et usano egualmente insieme quelli pochi offici che vi sono, eccetto la giudicatura, ch’è propria de nobili, quando hanno l’ettà e di contumanzia sono liberi. La terza condizione vive lavorando il terreno, il quale per la longhezza non eccede sei miglia e di larghezza due e rende biave per lo viver di mezz’anno a tutto il paese. De vini si cavano 1.000 botte all’anno e più, di modo che da da bever alla città e territorio a sufficienza. Gli ogli ancora sono di gran sussidio a questa città, perché n’è grande abbondanza, da quali vini et ogli li nobili e cittadini cavano il nervo delle loro entrade. Sollevano per l’addietro questi nobili e cittadini far molto maggior entrada, ma del 1405 perdettero il territorio largo e fertile ove erano molte ville importanti, le quali sono adesso da Turchi dominate, tuttavia restano in difficoltà con l’antichi padroni, li quali non restano spesse volte dolersi della ruina loro e far querele alla Porta.
Oltre li tre sorti d’abitanti sono ridotte in questa città alcune reliquie d’onorate famiglie delle città vicine signoreggiate da Turchi, come di Scutari, d’Alessio, di Durazzo e d’altri luoghi, fra li quali principalmente quella di Bruni, Palmalletti e Brutti, della quale solo è messer Antonio gentilhuomo virtuosissimo e fedelissimo alla Republica, il quale discende dall’illustre famiglia de Brutti romani, le cui reliquie restorono in quelle parti doppo il gran fatto d’arme che fu a Durazzo, città nobilissima di quella Provincia, tra Cesare e Pompeo il magno. Quelli delle famiglie forestiere attendono per maggior parte alli traffichi et pratticando le scale della Turchia, vivono assai commodamente, ma nelli nobili e cittadini di Dulcigno vi è estrema povertà. La communità non ha Consiglio ordinario, ma quando occorre mandar per loro bisogno ambasciatori a piedi dell’illustrissima signoria, si riducono con il suo magnifico Rettore messer Benetto Contarini, ch’è intitolato Conte e capitanio, e senza alcuna distinzione nobili, cittadini et artesani concorrono insieme facendo il Consiglio a voce ogni anno per il giorno di San Marco.
Il magnifico Conte elegge gl’ufficiali, due Sindici, che in civil giudicano con esso magnifico Conte e sono de nobili, e quattro camerlenghi, che si fanno anche de cittadini, e quattro o cinque altri ufficiali, de quali anco i lavoratori da terra vengono a partecipare. Ha questa communità due dazi, uno della … che importa ducati 600 in 700 all’anno, et con un altro de cavalli che si conducono dalla Turchia per Venezia, ch’importa ducati 40 in 50 all’anno, con li quali si prevagliono in far presenti a personaggi del Turco, nei quali dal 1540 in qua, ch’è dal tempo della guerra in poi, hanno speso alla summa di ducati 600, il che fanno per vicinar bene seco. Pagano ancora con questi dazi fitto di casa a soldati et a stradioti e fanno altre spese che occorrono alla giornata. La Signoria non ha altra intrada da questa città, salvo che il dazio del vino che si vende a spina, il qual ascende a ducati 120 all’anno et è obligato al salario del magnifico conte, il quale ha 30 ducati al mese.
Sono ancora posti dalla Serenissima signoria ducati 200 nel frasico per la scafa, perché non essendo molini nel territorio la città patisce molto di pane. Hanno questi Albanesi costumi barbari, parlano lingua albanese, tutta differente dalla dalmatina, ma sono degni di commendazione in questo che sono fedelissimi al suo prencipe. Fra loro non vivono estreme persecuzioni et odi intestini, ma sono però prestissimi di colera et garriscono volontieri nella piazza con parole, ma anco presto si rissolve questa natural loro grinta. Non amano forestieri, anzi contro tutti osservano una natural passione, il che asseriscono alcuni proceder dal rapto di Medea, perché discendono d’Absirto e da quelli di Colchide, li quali seguitando Giasone e Medea per vendicarsi dell’ingiuria fatta loro, si fermarono quivi et fondarono quella città, nella quale standone pieni d’ira e di furor odiavano non solamente Giasone et gli’argonauti, ma tutti li forestieri et li generati da quelli restano così nemici di forestieri, ma mi do a credere che ciò avvenga da una natural barbarie che è negl’animi loro, li quali sono atti ad amar pocco sé stessi non che gl’altri. È custodita questa città da 18 fanti, li quali sono sotto il governo del strenuo capitano Ogniben da Padova, ch’è diligentissimo nella custodia di quella città e nel governo di quelli soldati, ha bella e buona compagnia nei quali ordinariamente ogni anno la Signoria fa spesa di ducati 536 a ducati 67 per paga. È amato da quelli della città, che non è poco, amando loro pochi, quasi niuno. Sono oltra quelli straddiotti a cavallo numero 19, 14 sotto il strenuo Zuanne Recessi e cinque sotto il strenuo Zorzi Lopesi [?], dei quali la Signoria ha interesse ordinario ogni anno ducati 680, a ducati 85 per paga. Questa stradda è malissima a cavalli, ma hanno avuto termine dai signori Rettori di Zara di mettersi a cavallo quivi a Dulcigno, onde i magnifici Sindici hanno proibito, per proclama publico, che niuno possa comprar cavalli a Dulcigno fino che essi stradiotti non si saranno forniti. Sonno ancora in castello soldati 8 di paghe da guazzo sotto il vice contestabile ch’è Zuan di Cipro. In castello è anco un castellano che sta in città, il quale è messer Zuanne da Pollo, cittadino e benemerito veneziano, i quali costano alla Signoria d’ordinario ogni anno ducati 170, a ducati 20 per paga. Sono in Dulcigno due altri contestabili uno alla porta di mare et l’altro alla porta di terra ferma, appresso vi sono due altri bombardieri che costano alla Signoria ducati 96, a ducati 12 per paga. Sono oltre di questi Martelossi 24 sotto un capo, ch’è Ottobianca, questi sono tutti del paese di Dulcigno et hanno un ducatto al mese per paga et guardano il territorio, acciocché non sia danneggiato da Albanesi sudditi turcheschi, nei quali la Signoria ha di spesa ordinaria ogn’anno ducati 300, a ducati 25 al mese. Questi sono uomini ferocissimi armati quasi tutti di zacchi, di maglia, di celata e targa, in mano portano certi chiavarini che sono arme da mano a guisa di spontoni e li lanciano a guisa di dardi. Molti d’essi tiran l’arco e portan saette venenose et insieme portano le scimitare et si fanno temer assai dai circonvicini. Non sono in questo luogo altri provisionati che i Palmesti, feudatari della Signoria, che da Scuttari e circonvicini luoghi sono venuti et per i buoni meriti loro possedono case e possessioni dattegli dalla signoria serenissima, dalla quale sono stati anche esentati dalli dazi et hanno altri particolari privileggi. Quella città venne sotto la felicissima ombra di questa fidelissima Republica l’anno 1423, essendo Conte e capitanio a Scutari il magnifico messer Giacomo Dandolo, et venne volontariamente, onde perciò li sono concessi bellissimi privileggi e per la loro sincera fede et devozione verso questa Republica gli sono perfettamente osservati. Ella a quei primi tempi si governava a communità, ma non di meno fu sottoposta a diversi tirranni, fra quali fu il signor Stracimiri, il signor Balca suo figlio, il signor della Censa [?] dalla parte della Servia regnavano a quelli tempo molti altri signorotti per l’Albania, perché li signori Spani diedero nome al suo paese et i Ducagini alle montagne loro, dette oggidì li monti di Ducagini. Il valoroso e grande Scanderbech possedeva Lodiere et la città di Croiia, la qual per assedio poi fu presa per poca cura de signori veneziani, che lasciarono perder il resto dell’Albania per mancamento di monizioni. Era a quel tempo Carlo Massachi signor de Redenti e delle scienze Arettino Comminitoni, teniva Belgrado il monte di Tumor et il paese verso la Vallonia. Questi signori tutti sono stati discacciati da Turchi, onde alcuni d’essi ambirono l’Italia seguitando le corti de principi e vivono oggidì in poter loro. È in Dulcigno nella chiesa episcopale una devotissima imagine della beatissima Vergine, che figura l’ascenssione sua in cielo, la qual si dice esser una di quele che fece signor Luca evangelista di sua mano, la quale è bellissima et appresso è ornata di si ricche gioie et in che può eguagliarsi alle più divote, alle più belle, alle più ricche imagini che siano in qualsivoglia città nobile e famosa. Questa città ha un borgo fuori terra imediatamente di 50 case et ha due ville, una detta Bratizzi, ch’è in tramontana e comincia a Marcovici et è gente eretica e serviana, la quale abitando le pendici del monte Lisigna è infestissima alla città d’Antivari, lontana da Dulcigno miglia 18, l’altra è Birano verso mezzodì et è posta alla riva del mare, la qual è molto beneficata dalla natura che li ha datto fontane freschissime e limpidissime, pascoli odoriferi e folti boschi et un lago d’aqua dolce. In queste due ville et nel borgo sopradetto sono anime 600 et uomini da fatto 150. Ma perché la città è chiave e guardia del golfo di Doino, che spargendosi in mar separa la Dalmazia dell’Albania.
Non ommetterò di narrare, come nel detto golfo è la Boiana, fiume notissimo, lontano da quella città miglia 12, che con una dretta bocca confonde in mare le sue aque, il quale con sei piedi d’aqua per lo meno e nove per lo più, riceve dentro ogni sorte di navigli, che andando in su per miglia 18 pervengono alla Scala di San Giorgio, dalla quale fino a Scuttari, città fortissima e per assedio da Turchi, per mancamento di monizioni, presa, sono miglia sei, dove da un grandissimo lago, ch’è sopra Scuttari un miglio, questo fiume ha il nascimento, è questo lago di longhezza miglia 60 e largo 18, famoso e pieno di molti pesci nobili, dove si trovano trutte assai e in quel solo si pigliano le saracche, che da per tutto sono stimate. Alla detta Scala di San Zorzi si caricano molti navigli per Venezia d’ogni sorte di mercanzia, che dalla Natolia, Romania, Armenia e più lontani paesi vengono portate con le caravane, come cordovani, cere, lane, tapedi, feltroni, zambelotti e qualche somma di speciaria et altre molte. Lontano dalla bocca di questo fiume miglia 18 verso levante sono doi porti nel golfo dell’Odrino, che l’uno guarda l’altro ostro e tramontana, uno è detto San Zuanne della Medea, il quale ebbe questo nome da Medea che quivi capitò, l’altro è detto la sacca, è qui l’Odrino, nobilissimo fiume, che al golfo da nome.
Ha l’origine dal lago d’Ovida limpidissimo, il quale per esser abbondantissimo di trutte e carpioni è famosissimo per tutta la Turchia e principalmente a Costantinopoli. La città d’Ovida fu patria di Giustiniano imperatore e questo famoso lago è longo 40 miglia, dal quale nascendo il fiume Drino per cinque giornate di camino vien in mare et tre miglia sopra le sue bocche bagna l’antico Lissco, ora detto Alessio Citra, che da Ottacilio nelle guerre civili fu difesa. Lontano da queste bocche del Drino miglia sei, verso mezzodì, escono fuori le due bocche del fiume Mattia, il quale è rapidissimo discendendo, cresce e manca secondo le pioggie. Lontano da questo fiume miglia nove, verso mezzo giorno l’Illammo fiume vien in mare, il quale nascendo da certi fonti, corre per la Tianara pianura larghissima, lasciando per levante la fortissima città di Croia, dalla quale passa lontano miglia 12. È Croia città della grandezza di Scuttari e di Dulcigno all’incirca, fabricata sopra un colle et essendo fondata sopra la pietra viva ha nel mezzo una fontana d’aqua viva freschissima, ch’è cosa maravigliosa per lo sito che la natura tanto li dona. Tutta la città è levata in aere sopra alti diruppi, la onde predomina con grandissima guardatura le pianure della Tianara predetta, vede Redoni, le pianure, i campi e la nobilissima città di Durazzo, tutto il paese della Scuria, quello di Petulla, delli Dronichi e scuopre l’alto monte di Tomor, ch’è sopra Belgrado, ch’è verso Vallona, e poi girandossi verso tramontana si vede Alessio, il paese di Scuttari e la città di Dulcigno che diffende il mare, al dirimpetto di Croia vede la montagna sopra Antivari e quella di Cattaro. Da questo fiume d’Illammo incominciano le fruttifere et amene colline di Redoni in niuna parte sassose. Questi redonesi sono uomini membruti di mezza statura, proporzionati e valorosi, di modo che ancora non sono ben sottomessi da Turchi loro signori, ma per esser troppo gente atta a robbar e pocco osservatrice della fede, rendono a sé stessi nome biasimevole. Cava da questo golfo di Drino, da Redoni, Arzetten et Durazzo la città di Dulcigno 150.000 stara di biave all’anno, le quali cavano sotto nome d’albanesi e le spediscono per Dulcigno, Venezia et altri luoghi. Conducono Turchi a Dulcigno molti cavalli, ma non palesemente, perché è vietato da Turchi, è costituita grave pena a tutti quelli che conducono cavalli fuor del paese. In quella provinzia fu un antichissima città detta Suazzi, le cui gran vestiggia e fondamenti di 360 capelle di chiesa si vedono oggidì, lontana a Dulcigno miglia 15 e fu primo ricetto alla discacciata Medea doppo la scelerata morte commessa verso li proprii figlioli. La muraglia di questa città e la porta, ove stava il gran capitano di Cesare che contro Pompeiano virilmente combattendo morì, sono oggi tutte integre e quel ch’è più maraviglioso di questo è il fosso, che non è ancora aguagliato, e tante aque di torrenti e tire da tanto tempo addietro non l’anno possuto empir di terreno.
Antivari
Alli 10 d’agosto dopo desinare partissimo di Dulcigno con la galera del predetto magnifico Capitanio del Golfo, il quale ritornato da Puglia con le sue conserve venne a levarci, e venissimo alla spiaggia d’Antivari, che sono miglia 18, lontano dalla città miglia tre, ove eravamo aspettati per rispetto di Marcovichi dalla cavalleria della strazia, che ci conducesse fino alla città, ove giunti fummo incontrati dal reverendissimo arcivescovo e dal magnifico Podestà e salutati con suono di campane e con grandissimi sbari d’altellatia, venissimo alla chiesa cattredale e poi si ridussimo all’alloggiamento preparatoci.
Antivari è città posta in Dalmazia in Europa, come è il resto di quella provincia, lungi dalle spiagge del mare Adriatico miglia tre, la quale secondo alcuni, per esser termine et fine dell’Albania detta Macedonia et capo e principio di Dalmazia, abbraccia talmente li termini dell’una e dell’altra provincia che molti hanno lungamente dubbitato se gl’abitanti sono naturalmente Dalmatini o Albanesi, usando massimamente le ville circonvicine una e l’altra lingua. Questa città per opinione di molti fu fondata d’alcune relquie di Troiani, i quali quindi passando non poterono, parte per vecchiezza, parte per infermità e parte per stanchezza, seguitare il loro viaggio. Vi è da dubitare che essi troiani non passassero per questo Golfo, avendo detto Virgilio.
Antenor potuit mediis … achivis illiricos penetrare sinus, atque intima tutus rena liburnus.
Fu fondata primieramente essa città non nel luogo dove ora si ritrova, ma nella prima parte del monte o collina detta Volleniza appresso la spiaggia del mare, ma vedendosi questi poco sicuri dalli corsari da mare, lasciati li primi principi dei quali oggidì si veggono ancora le antichissime vestigge, si ritirorono alquanto più fra terra verso tramontana, dove fondorono la presente città in schena di monte, appresso aspro e sassoso, il cui circuito arbiularmente [?] stringendosi è di mezzo miglio e perché il sito è in colle et dalle parti di levante, tramontana e ponente, questa città è coperta e diffesa da altissimi et asprissimi monti, le cui ascese sono inacessibili et il condurvi altellaria è impossibile, è da se fortissima et inespugnabile, ma più sicura saria quando il bastione detto Ghiavoliza, ch’è verso ponente, si ripezasse alzandolo piedi cinque e raconcciandolo meglio che ora non è mancadovi la muraglia et essendo debolissimo.
Saria ancora cosa buona otturare la porta postera ch’è fra il duomo et il castello, essendo quella una porta bastarda e non guardata e suspettosa, si da Turchi come da Marcovichi, per non esser custodita da guardia alcuna. Oltre di ciò bisogneria proveder che si potesse camminar attorno la muraglia per tutto, il che non si può essendo otturato il passo in più luoghi, si da case come da muri d’orti, che impediscono per 70 o 80 passa, bisognaria ancora otturare molti busi e balconi, che sono scala ad amici et nemici di entrare commodamente a suo bel piacere nella città, la quale ha il castello verso borra et tramontana poco forte, ma per lo sito assai gagliardo, ha la porta di terra, cioè la porta maritima fra tramontana e ponente. Nel castello è il barbacano, ove è stata posta la guardia (che non era) per li signori Sindici, al qual si può ascender per alcuni gradi di pietra nel monte fatti dalla natura, li quali bisogneria scarpelare et serrar di muro una finestra, ch’è posta per entrare nel detto barbacano, il muro del quale bisogneria alzare almeno piedi quattro, et perché alla porta maistra della città sono due entrate, che entrati nella prima si può andar nella città per attorno le mura senza entrare nella seconda, bisogneria serrar quel luogo aperto fra le dette porte con un muro grosso et farvi un revelino per ogni buon rispetto, acciò li nemici, quando avessero ben penetrato il revelino, non potessero entrare nella città, se non passassero per l’altra porta, la quale è continuamente custodita da 12 soldati da guazzo, per la quale uscendo si discende alla pianura et alla marina, il cui porto è alla ponta della Vallonizza sopradetta, il quale per esser combattuto da garbino et ostro non è sicuro ai naviganti e perciò spiazza non porto è detto. Doppo l’esser stata dominata questa città da diversi principi e tiranni, venne finalmente alla podestà dell’imperator Diocleziano sotto l’anno del Nostro signore 300 e stando egli tre anni in Antivari edificò la città Duchia, non molto lontana d’Antivari, la qual fu ruinata dai gotti al tempo che fu distrutta Salona. Fece questo imperator bellissime essenzioni et privileggi ai Pastrovichi facendoli liberi d’ogni angaria per tutte le terre del suo imperio, che li furono poi confirmati da Costantino imperatore di Roma, da Giustiniano imperatore, da Carlo re d’Ungaria, da Niceforo imperator di Costantinopoli, da Alessio imperator di Costantinopoli, da Federico Barbarossa imperator di Roma, da Steffano imperator di Bolgaria et re di Savia, il qual appresso gli donò due castelli e gli concesse la giurisdizion civile e criminale. Del 1370 poi intendendo Lodovico re d’Ungaria che l’armata veneziana era andata all’impresa di Cattaro e che i Pastrovichi erano andati in loro aiuto, mosse il suo esercito contro essi Pastrovichi e privatoli delle dete castella, donategli dall’imperator di Bulgaria, mettendo il paese a ferro e fuoco, non perdonando ad altri che ai putti piccioli, dai quali sono discesi questi che vivono oggidì, tanto sviscerati e fedeli alla Signoria, alla divozione della quale si diedero del 1423 essendo Capitanio generale del Golfo il magnifico messer Francesco Bembo, sotto il principato del serenissimo messer Francesco Foscarin e poi sotto il principato del serenissimo messer Zuanne Mocenigo nell’anno 1481 gli furono confirmati i medesimi privileggi e esenzioni, essendo stati fin a quel tempo signoreggiati dall’illustrissimo signor Zorzi Desput re di Servia. Sono i Pastrovichi oltra 1.000 uomini da fatto valorosi e tutti bellicosi, per lo cui valore e sincera fede verso la Republica si può dire, come in fatto è vero, che i Pastrovichi siano la chiave e diffesa e lo scudo della città di Cattaro importantissima, di Budua e di Antivari contra chiunque volesse impadronirsi di quei luoghi, il perché devono esser tenuti cari et abbracciarli. Doppo Diocleziano imperatore Antivari capitò in poter dell’imperator Steffano Macedonico, dal quale come di legge dal privileggio donato ad Antivari, questa città fu arrichita et privilleggiata di molti doni et immunità, fece ricche questo prencipe più chiese, come l’abbaccia di San Maria di Rostezzo del cardinal Risan, posta in quel territorio alla riva del mare, e poi mancato quest’imperator fu signoreggiata questa città da diversi tiranni, fin al tempo che venne del deposto Steffano signor di Servia, il qual fu liberalissimo verso Antivarini, lasciandoli reggere la città a modo loro come Republica o communità e donandoli ogni giurisdizione civile e criminale, riponendo però quest’auttorità nei nobili e risservando in sé l’ubbidienza d’essi Antivarini in ogni occasione. Fu questo signor di Servia debellato dal Signor turco e miseramente vinto, onde rimanendo gl’Antivarini senza signor e volendo sottoponersi a giusto prencipe, del 1422 si diedero volontariamente alla devozione della Republica et il settimo anno dopo, che fu del 1429, essendo crudelmente molestata et infestata dal signor Balsa signor di Centa e della Bossina, essendo i signori veneziani occupati nelle guerre di Milano con l’Ittalia e non potendo perciò soccorrer gl’Antivarini, essi Antivarini si diedero in mano d’esso signor Balsa, sotto la cui tirannide perseverorono fin al 1443, nel qual tempo essendo Proveditore a Scuttari il magnifico messer Giacomo Dandolo e venuto sotto Antivari, fatti i loro consigli, ritornarono volontariamente alla devozione della Republica e sono restati fino al di d’oggi. Vi è in questa città un solo Consiglio nel quale v’entravano i nobili solamente, ch’erano al numero 400, ma dal 1412 i popolari invidiosi e pieni d’ambizione si sollevorono mettendo mille disturbi in questa materia, la onde per conservar il pacifico viver fu dichiarito che si facessero due consigli, uno de popolari e l’altro de nobili, come sono al presente, quel de nobili è ordinato ogni anno alli 25 d’aprile, il giorno di San Marco, e quel de popolari si fa il giorno seguente.
In quel de nobili (che non può esser minor di 30 e al più sono 45, tanto s’è sminuita e mancata la nobiltà) fanno quattro giudici nobili e doi procuratori avvocati ordinarii, auditori doi, uno sopra la sommità, un consegliero, un tesoriero, procuratori di chiese, un capitano della pianura, un scontro di camera, tutti nobili. In quel de popolari oppotunemente creano con suffraggi e non con voce l’istessi uffici e stanno in ufficio un anno, insieme con li nobili, estraordinariamente poi si fa un Consiglio minor, nel quale si provede alle cose che occorrono per giornata, ove entrano i giudici vecchi et i nuovi, che sono otto, procuratori nuovi e vecchi quattro, tesorieri nuovi e vecchi, il magnifico Podestà, il magnifico Antonio Choso Camerlengo, messer Zan Alvise Michieli et il nodaro della terra, che sono in tutti 19. L’entrada di questa communità è di ducati 200 all’anno, li quali si cavano dai dazii, cioè cavalli, scaffa e beccaria, de quali dannari si pagano li officiali sopradetti, ambasciatori che bisognano mandar a Venezia, angherie, gravezze che occorrono alla giornata, come in presentar Turchi, pagar fitti di casa a stradioti, a soldati e per conciar il palazzo del magnifico Conte quando fa bisogno, alla esazione e distribuzione de quali dennari sono eletti doi cassieri, un nobile e l’altro popolare e in capo dell’anno è sempre maggior la spesa che l’entrada. Le famiglie de nobili sono Prodi, Proculami, Razzi, Chiariazzi [?], Pasquali, Samueli, Battaglia, Boris, Bozza, Zuppani, Dalmas [?], Marucchi, Chrattea e Golietti et il resto sino al numero di 74 famiglie sono mancate, le facoltà e richezze loro sono minime e parimente dei popolari, vivendo sopra quelle poche loro entrade che hanno, non essendovi traffichi, se non di poca importanza, niente di meno quando non fosse rubbato e violentato il territorio loro da Marcovich, si intensissimi nemici che gl’occupano la metà della pianura et il monte Vallovizza, veveriano questi Antivarini assai commodamente, oltre diche, quando le galere grosse andavano in Fiandra et in ponente, molti di quei cittadini facevano quei viaggi et arrichivano la città e le famiglie, ma ora non hanno altro traffico che di cavalli, pellami e cere, che conducono da Scutari a Venezia, ch’è di poca importanza. Sono nella città anime 2.500, uomini da fatto belicosissimi 500, hanno questi Antivarini costumi barbari, sono grintosi e naturalmente nemici de forestieri et appena amano sé stessi, maledici e fastidiosissimi, di modo che se non fosse la gara [?] che tengono li Marcovichi si amazzariano fra di loro come cani pieni di rabbia, onde non so quale fusse meglio o che le guerre civili siano lontano da loro per rispetto de Marcovichi, che li tengono sempre in arme danneggiandoli, o che assettata la differenza che hanno con essi Marcovichi ritornassero alle discordie civili. Veramente l’arroganza di questi Marcovichi è tale che quando ella non fusse oppressa e conculcata da essi Antivarini, col mezzo dei soldati, i Marcovichi ammazzariano detti Antivarini sino nella città, fra quali vi è il valoroso Prospero Solo con una compagnia di 50 fanti, soldati elletti e benissimo all’ordine, i quali daranno spesa ordinaria alla Signoria ogni anno di ducati 1.352, a ducati 160 per paga; et il strenuo Zuanne da Mane [?] con soldati 20, quali levano ogni anno alla Serenissima signoria ducati 584, a ducati 73 per paga; il strenuo Dimitri Stratti stradiotto con cavalli 20, i quali sono di spesa ordinaria alla Signoria di ducati 664, a ducati 83 per paga; et alla porta Maistra è un contestabile con soldati 12 da guazzo, quali oltracché guardano la detta porta, fanno l’esecuzione col cavalier del magnifico Podestà, che sono come per giurisdizione condotti da ogni Podestà che succede, quali danno di spesa a San Marco ogni anno di ducati 288, a ducati 36 per paga. In castello sono soldati cinque, con doi bomardieri, che sono di spesa ordinaria ogni anno ducati 184, a ducati 23 per paga, tratti da tanti sali per Corfù. Alle fazioni et alle scaramuccie che si fanno in campagna contro Marcovichi molto si distingue con la sua compagnia il sopradetto capitanio Prospero, mentre tutti con valore fanno onoratissime fazioni, mettendo gran terror con gl’archibusi a Marcovichi, li quali temono grandemente, né si accostano ove sono gl’archibusi. Occupano questi alli Antivarini il monte Volovizza, posto alla fronte della città, come termine et arzere all’impeto e furore del mare; non molto lontano da quel monte sonovi bellissime pianure atte a render un’infinità di biave, le quali restano inculte, et appresso vi sono verdissimi pascoli di animali, ma per esser occupato il monte ch’è sopra come cavagliero della pianura, vengono medesimamente detti Marcovichi ad occupar parte della pianura et altre costiere, le quali non si possono coltivar per dubbio d’essi marcovichi, il che cede a grandissima giattura di detti Antivarini, il territorio delli quali tutto s’estende per circolo miglia 12 et ametralmente tirandolo miglia cinque, ma questo è colto, ameno, vago e tutto piano, fertile e coltivato, che rende biave per più di tre mesi all’anno, e quando la pianura non fosse occupata, renderia biave per uso della città e del territorio per tutto l’anno, delle quali si prevagliono delle ville circonvicine. Vini nascono tanto buoni e perfetti che doi terzi bastano per lo bevere della città e territorio, l’altro terzo si vende quasi tutto a mercanti di Castel Novo. Rende il territorio 400 botte d’oglio all’anno, del quale parte ne resta per l’uso della città et il resto si spedisce per uso delle città di Servia, Ragusi e Castel Novo, e questo è il nervo dell’entrade et il sostentamento d’Antivari, e maggior quantità raccoglieriano quando i perfidi Marcovichi non avessero tagliato e non tagliassero tutta via gl’olivari di notte. Restano ora in questo territorio cinque villaggi, di 74 che sono stati presi et occupati da Turchi nel tempo delle guerre, nelli quali sono anime 3.500 et uomini da fatto 1.200. I Turchi vicinano benissimo, si per lo traffico e convenazione [?] ch’è fra Turchi et Antivarini, come perché tutta volta che vengono li voivoda in Antivari, sotto nome di negozianti publici, sono accarezzati e presentati, li quali presenti e spese fatte ai Turchi del 1545 in qua ascendono a … oltre di ciò usavano mandarli a Scutari un presente ogni anno di valore di 80 scudi, la qual usanza fu levata del 1540, essendovi Podestà il magnifico messer Giovan Battista Gradenigo, il qual non volse permetter che fusse datto dalla città questo tributo ordinario a sanzacchi, e da quel tempo in poi i Antivarini sono stati liberi da questa gravazza, e se così facessero tutte le altre città della Dalmazia, si levaria quel tacito tributo e mancheria anche la superbia de Turchi per questo capo fomentata.
Budua
Alli 18 agosto dopo disnar partissimo d’Antivari, venendo a cavallo fin alla spiazza dove trovassimo la galera cattarina, la quale era venuta a posta a levante di comissione del magnifico Capitanio di Golfo, con la quale s’incaminassimo verso Budua, dove giungessimo sull’ora tarda, che sono miglia 18.
È Budua un castello, benché affermano i Buduani esser città, ma non si vede vescovato né meno altre vestigge che diano indicio ch’ella sia città. Giace questa terra per la maggior parte, anzi quasi tutta, in mare et si dice che Budua era già tutta in scoglio e d’ogni intorno era bagnata dall’acqua, ma per maggior commodità della terra fu atterata una parte, dov’è la porta di Terraferma, col rivelino fatto di nuovo verso tramontana e ponente, di modo che l’isola adesso è congionta con la terra ferma. Il porto è in tramontana, il qual per non esser totalmente sicuro, per molte secche vi sono dentro e battuto dai venti, Buduani hanno fondato un porto verso grego, sopra una ponta, dove vogliono far un molo, acciò i navigli possano sorgere sicuramente e commodamente, li quali ora sorgono per mezzo il scoglio ch’è dirimpetto a Budua. Oltre la porta di Terraferma sono tre porte che rispondono alla marina, una verso il porto, l’atra verso levante, la terza in maistro. Il castello giace sopra un alto dirupo che riposa in mare verso ostro, il qual non è di molta considerazione, per non esser posto in fortezza, come non è il resto di terra ferma, la qual però dalla parte di mare è diffesa dal sito, perché da niun lato le galere o altri legni armati si potriano appressare, quando bisogneria, volendola offender, perché quasi d’ogni intorno ha secche e grebbani di sassi sotto aqua, di modo che i legni armati non si potriano vicinare. Dal castello veramente fin alla porta del mare ch’è in levante è aqua a sufficienza per ogni legno armato, ma una purpurella a guisa di quella di Zara difende quella parte di terra. Veramente è questo luogo debolissimo, sicché non ha né muraglia che la circonda né bastioni che la diffenda e perché ha il colle vicino che la supera, il quale, quando bene questo luogo fosse fortissimo, lo batteria gagliardamente.
Il circuito di tutta la terra e circa possa 400. Fu fondato come si dice il castello di queso luogo da Greci nel ritorno loro a casa dopo la destruzione di Troia. La gente che abitava questi contorni cominciorono a riddursi intorno di esso, fabricandovi case basse de paglia e di muro senza calcina. Fu poscia signoreggiato questo castello dalli medesimi signori che tenevano Antivari e dal medesimo 1423 venne alla devozione della Serenissima signoria, la qual già anni 70 in circa fornì di circondar la terra di quelle mura che sono oggidì, massimamente verso la marina, e fece più alte quelle verso terraferma, che vi era solamente le fondamenta antichissime. Erano questi Buduani per l’addietro di fede eretica e da poco tempo in qua ritornarono sotto la legge romana, alla quale li convertì l’arcivescovo d’Antivari del 1521 predicandogli come buon pastore e cristiano. Già anni 60 questi Buduani comincirono a riddursi e far il loro Consiglio, agiustandosi il nome di communità, non essendo per l’addietro divisi né conosciuti i cittadini dai popolari. Creano ora in questo Consiglio alcuni suoi ufficiali come giudici, procuratori della terra, fontegari et altri. La città non ha altra entrada che il dazio della beccaria e del pane, ch’importano ducati 200, col quale pagano ambasciatori, ch’occorrono mandar a Venezia, affitti di casa a stradiotti et altre cose appartenenti al publico. Il dacio del vino veramente è della Serenissima signoria e si affitta ogni anno all’incanto ducati 150, il qual è obbligato al salario del magnifico Podestà messer Gerolimo Bembo, ma la spesa che fa il Dominio per guardia della città è di gran lunga maggiore, dovendo pagar 8 stradioti, il capo de quali è Giovan Velemeli, quali sono di spesa ordinaria alla Signoria di ducati 147; 10 soldati alla porta col bombardiero, sotto un contestabile Pietro Venturin Molvassi, li quali danno spesa ordinaria alla Signoria di ducati 248; 5 soldati della paga da guazzo, computando un contestabile et un bombardiero, che fanno spesa ordinaria alla Signoria di ducati 184. Questi fanti a piè e soldati a guazzo sono pagati per la mettà del dannaro che si cava dal sale di Corfù, ch’è … in quel luogo e l’altra metà le vien mandata da Venezia. Sono in questa città e terra anime 800 et uomini da fatto 200, sono di costumi barbari, come il resto di Dalmazia, e vivono sordidamente a guisa di cingani, stando in una stanza medesima con i suoi animali, come fanno quasi tutti gl’Albanesi, il che procede dall’estrama povertà ch’è in quella Provincia; i cittadini vivono dell’entrade dei vini, la qual è assai buona, raccogliendosi sopra quel poco di territorio tanto vino che basta a bevera a tutta la terra. Attendono molti di loro alla marinarezza e stanno sopra qualche traffico andando coi suoi brigantini in Albania, in Puglia et in altri luoghi con cavalli, formenti, lane, ogli, cere e altre cose. Alcun dei poveri attendono alla pescaggione e le donne seccano una quantità di ficchi, peri, persichi, susini et altre cose. Biave non cavano né poco né molto, perché il territorio è piccolissimo, non essendo lungo oltre un miglio e largo un tirar d’archibuso, parte in pianura e parte in colle tutto pudigato [?], il resto è di Turchi, con li quali vicinano assai bene, essendo questi pure inimicissimi de Pastrovichi. Per rimediare a tal inimicizia e dissensione, essendo questi due popoli fedelissimi alla Republica, li magnifici signori Sindici hanno messo ogni studio per aquietar queste differenze, le quali accomodorono col favor divino, concludendo pace fra loro alli 20 dello stesso mese, che fu dominica.
Nella loggia del castello di Budua, insieme col magnifico Podestà di Budua, nella qual pace fu servato questo ordine, cioè che 12 uomini dell’una e 12 dell’altra parte di 12 parentadi si riducessero insieme, come è loro costume, alla presenza d’essi magnifici signori Sindici e Podestà, li quali 24 come arbitri dell’una e dell’altra parte giudicano e stimano fra di loro l’offese, ad una ad una, in tanti contanti e nel fine quella parte che resterà creditrice per maggior quantità di danni pattiti, sia sodisfatta della debita summa dell’altra parte, secondo il giudicio d’essi 24 arbitri et all’ora sia conclusa la pace, altrimenti tutte le potenze del mondo non sariano stati bastanti a pacificarli, perché si governano naturalmente a furor e con tuttociò essi signori Sindici ebbero insoportabil fatica a persuaderli la pace, essendo cosa difficile il negoziar con gente barbarissima e lontana d’ogni sorta d’umanità, che perciò adoperarono con la loro dolcezza et alle volte si valssero della loro auttorità.
Cattaro
Alli 22 agosto partissimo da Budua facendone buttar da un bregantino ad una spiazza lontana da Budua circa un miglio e mezzo dove ci atendevano la cavalleria della strazia di Budua e di Cattaro, schivando la stradda per terraferma da Budua sino alla sudetta spizza per esser sassosa, montosa e sinistra da calvalcare, montammo a cavallo e s’incamminassimo verso Cattaro per una pianura o vallada già giurisdizione di Cattaro, territorio abitato da Zuppani sudditi turcheschi e coltivato insieme con alcuni monti che la cingono et altre colture ch’è del Signor turco, il qual territorio era tutto di Cattaro, ma si perdè in tempo delle guerre per ellezione de Zuppani. Questa valle per la quale cavalcassimo è longa miglia 6 e larga un terzo di miglio, tutta fertile, rende biave assai, passata la valle entrassimo in altre vallette fra colli ameni e vaghi, ma non coltivati, li quali si estendono per un miglio di longhezza, usciti da queste colline scoprissimo un’altra valle in bella pianura, abitata pur dalli detti Zuppani, la qual è fertilissima, et è longa due miglia e larga quasi un miglio, e poi entrassimo fra i confini di Cattaro, li quali sono quasi per mezzo il scoglio dove stanno i stradioti che sono alla custodia di quella città e suo territorio, contigua la valle antedetta alla montagna di Cattaro, che può esser una larghezza di un miglio poco più. Questa pianura è fertile di biave e le casture [?] del monte di Cattaro sono vignate di vigne basse, le quali rendono bonissima quantità di vini. Giunti nella gola di queso monte fussimo assaliti da una pioggia grandissima, la quale ne accompagnò fin a Cattaro, fecendone il camino molto sinistro, per esser l’ascesa e discesa discomodissima a cavalli, essendo tutta sassosa e rotta. Arrivassimo a Cattaro all’ora di desinare furono sbarate altellarie e così bagnati andassimo a smontar alla galera del magnifico Capitano di Golfo, il quale già giorni 4 ne attendeva con le galere sue.
Cattaro è città anticha posta in Dalmazia, la quale fu già edificata non nel luogo ove si ritrova al presente, ma in un altro luogo poco discosto, che si chiamava Vorda et oggi Sabetiezza sopra un alto e aspro monte, contiguo a questo, che ora è tirrato dentro dalla muraglia della città, immediatamente fuori della porta di San Francesco. Fu fondata questa prima città da alcuni romani, che furono delle reliquie dell’esercito di Pompeo Magno, che fu sotto Durazzo da Cesare debellato. Gli abitanti di questa città vissero lungo tempo sotto la legge pagana e poscia, per le predicazioni degl’apostoli e di uomini santi, per inspirazione di Dio, col tempo divennero cristiani. Si governò questa città longo tempo da sé stessa come libera, ma raccomandata e tributaria a diversi tiranni che regnavano a quei tempi, ma il governo principale stava nelle mani de nobili della città e facevano leggi e statuti a modo loro, come ora si regge la città di Ragusi. Si legge nelle descrizioni antichissime di questa città che già anni 950 vennero alla bocca di questo canale due navi, una delle quali portava il corpo di San Marco evangelista e l’altra il corpo di san Triffone. Questa entrò nella boca e venne nel luogo dove ora è il duomo consegrato al nome di San Triffone, nel qual luogo è per tutto il sito piano dove ora giace la città di Cattaro, la qual nave giunta, il vescovo di Cattaro venne con tutto il clero per levar il corpo di san Triffone e portarlo nell’antiqua, che fu all’ora, ma non fu mai possibile di levar la cassa dove era il detto corpo riposto, la quale da sua posta andò miracolosamente dov’è essa chiesa di San Triffone e da quell’ora in qua cominciarono i Cattarini fabbricare la nuova città dove ora si rittrova. Dell’anno 1420 al tempo che quasi tutta la Dalmazia venne in potere della Serenissima signoria, non volendosi sottometter quei nobili cittadini ancoraché fussero richiesti dal clarissimo generale Pisani, andò Sua eccellenza con l’armata sotto la città et l’abbattè et entrato dentro l’abbrucciò, il che vedendo i nobili, in mano dei quali stava il governo della città, e considerando di non poter ad alcun prencipe, che la volesse offendere, resistere, congregato il suo Consiglio proposero tre parti, una che si dovessero sottometter al re de romani, la seconda al re di Napoli e la terza che si vendessero alla republica veneziana, et questa fu presa da tutte le ballotte, onde mandò la communità il cavalier a Venezia per questa raggione e la Signoria mandò Marin Rosso a celebrar l’istrumento, che fu fatto tra la Signoria e la communità di Cattaro, e fu alli 25 di luglio 1420 con obligazione che la Signoria pagasse al signor Balsa signor di Monte Negro ogni anno ducati 1.000, nel luogo del quale essendo subintrato il Signor turco, qualche giorno si potria aver qualche molestia per qusta caggione.
Cattaro adunque è città di Dalmazia o Illirica, che vogliano dire, la qual verso levante si appoggia ad un monte asprissimo tutto di sasso vivo, detto Monte Negro abitato da sudditi turcheschi. La muraglia che guarda verso il canale comminciando dalla porta San Francesco, ch’è in ostro, fin al bastion sotto la cittadella, ch’è in ponente, il qual guarda e diffende la bocca del porto, è longa passa 269 et ha molte crepature. Dal detto turione cittadella fin al balloardo fatto in tempo del magnifico Bembo, il qual è in tramontana, sono passa 96, fra questi baloardi è una fossa longa un tiro di mano, nella qual entra l’aqua del canal marino et anco quella della fiumara detta Scorda, la quale nasce e scorre sottovia il monte del sasso vivo. Dall’altra parte della città verso ostro sorge da più bocche grandissima quantità d’aque, le quali vanno immediatamente alla marina. Dal baloardo Bembo fin al baloardo fatto in tempo del manifico Riva sono passa 50. Questo è posto dove comincia la costiera del monte verso greco e sotto esso vi sono due molini, e questo ancora non è fornito, ma li mancano li parapetti et altre cose, le quali volendosi fornire si spenderia ducati 350. Fra questi doi baloardi Bembo e Riva vi è la porta di terra ferma verso greco tramontana, la quale ha un ponte, che si distende sopra la fiumara sopradetta, per la quale si va in Monte Negro a Ragusi verso Costantinopoli et ove si vuole. Ivi vicino da questo baloardo Riva incomincia la muraglia del monte al quale si appoggia la città, sopra il quale è fabbricato il castello, questo diffendendosi fin sopra il colle sudetto è longo passa grossi 305 e sopra di esso vi sono 17 guardiole, ma alcune di loro sono disoperte, che perciò restano molte fiate da soldati incostodite. Sono fra queste guardie alcuni cavaglieri, cioè il Campani, il Pellegriso, il Guadagno et il Malguadagno, li quali battono parimenti il colle, che supera la città, onde si può dire che questi cavaglieri, appoggiati sopra il detto monte, siano la siccurezza di Cattaro. Tutto il circuito di questa città e del monte è di passa 1.407. Il castello è di circuito passa 90 in circa, dalla parte verso levante ha una cortina di meraviglia a scarpa perfetissima, ma verso ponente è debolissima e minacia ruina. Stanno alla custodia del castello un Castellano, nobile veneziano, et un capitano con soldati, il capitano è Galeazzo Bucella et ha una compagnia onoratissima. La spesa che viene a dar questo capitanio e soldati ascende a ducati 584 all’anno.
Il casel di Risano è fortissimo, il qual non si può battere, ma si va con scala da mano chi vuol ascenderlo, è fabricato sopra una costiera verso levante, il qual per lo sito è inespugnabile. Era questo castello della Signoria, ma fu tolto da Berbarissa quando ei andò sotto Cattaro e gli fu datto nelle mani dal capitano ch’era dentro, il qual era pugliese e dai soldati ch’erano in quella custodia, contro la volontà del Rettor ch’era nel governo d’esso, messer Zan Zuanne, li quali capitanio e soldati furono corrotti dal detto Berbarissa con dannari, ma furono gabati e pagati di moneta falsa da esso Berbarissa, il qual disse loro: se avete inganato il vostro signore ingannereste ancora me, onde gli diede il condegno merito di si fatta sceleraggine facendone parte appiare e parte mettere al remo.
Questa perdita fu grande alla Repubblica, si per spazzamento de sali che ivi si spedivano, il quale importava ducati 12.000 all’anno quando più quando meno, si perché ivi era Scalla di merci grosse, il qual traffico era in mano di Giudei che trafficano per Ancona e Castelnuovo. Fu già Risano città nobilissima e collonia de romani, come scrive Plinio, fuggì in questo luogo Teuca regina figlia d’Agron fugata dai romani, doppo che fu cacciata dall’isola di Lissa, ove ancora apparono le vestigge del suo palazzo, et ivi finì la sua vita. Lungi da quello due miglia è Castelnuovo del Signor turco, ora refabricato più ad alto che non era, in forma cicolare e qusi rottonda nel terreno, che può facilmente esser ruinato, di pochissimo circuito, ove abitano alcuni giudei che trafficano alla scala di Risano et ivi vicino sono alcune poche saline. È divisa la città di Cattaro in cittadini e populari, quali hanno il suo Consiglio separato, nel quale ogni anno, alli 23 d’aprile il giorno di san Zorzi, alla presenza del clarissimo Proveditore creano tre giudici, che giudicano le cose civili insieme col magnifico Proveditore, nei criminali veramente, benché volevano impedirsi [?], non s’impacciano, creano altri tre giudici, che giudicano sino alla summa di lire 25 insieme col cancegliere del magnifico Proveditore, l’appellazioni del quale vanno a sua manificenza, oltra dei quali elleggono 4 avvocati nobili et altri suoi ufficiali. Li popolari veramente fanno un altro Consiglio appartato, nel quale fanno ambasciatori, se occorre, e provvedono alle cose pertinenti, ma non ballotano con bossolo e ballotte se non usano per certi bollettii e metterli in una beretta o in un facioletto, sogliono convocar questo suo Consiglio a 5 del mese di marzo ordinariamente. Hanno i nobili alcuni privileggi e fra li altri hanno auttorità di batter moneta d’argento di cinque bezzi e baghettini, le qual monete sono però di tutta lega e si spendono solamente in Cattaro e territorio suo. Sono nella città intorno anime 4.000 et uomini da fatto 800, dei quali 600 sono dei popolari e 200 de nobili. Hanno così li nobili come plebei costumi barbari, ma più li popolari, li quali sono anche di natura maligna. I nobili sono assai puliti nel vestir, ma nel resto sono Dalmatini come gl’altri e massimamente sono sinistri nel pratticare. Le famigie nobili sono Pasquali, Bolizza, Bisant, Meica, Draghi, Vrachian, Glavati, Zaguri, Giste, Guuchia [?], Pelegrini, Gurbogna, Bassita. V’erano molte altre famiglie fin al tempo che fu abbruciata la terra. Il loro traffico consiste in schiavine, cere, pelami e lane, che vengono dal paese turchesco e li cattarini comprano e portano alla fiera di Lanzano e a Venezia et altri luogi, estragono ancora cavalli assai dal paese Turco, nascostamente, e da loro sono venduti a Venezia et altrove, con li quali traffichi si sostenta tutta la città. L’importanza di questi traffici si comprende dalla vendita dei dazi delle mercanzie d’ogni sorte, li quali s’affittano tutti circa ducati 3.000 e la spesa ordinaria, di maniera che si trafficano per ducati 100.000 all’anno, ma in cordovani solamente trafficano per ducati 30.000 all’anno.
L’entrada tutta della camera fiscale, quale consise in dazii, è in somma di ducati 3.500 e la spesa ordinaria è di ducati 2.977 di maniera che la camera resta ad avere più d’entrata che di spesa ducati 523, ma estraordinariamente si fanno molte altre spese, le quali ascendono tutta l’entrada et il più delle volte con l’entrada non si supplisse alla spesa. Le spese ordiarie sono di pagar i Rettori, ufficiali, provisionati, medico, maestro di scuola, speciero, canceliere della communità, la qual non ha entrada alcuna, e in presentar Turchi, nelle spese estraordinarie dal 1545 sono stati spesi ducati 10.000 e sempre è da spender in fabriche. Ha di spesa la Signoria ogn’anno in pagar soldati, che sono ora in questa custodia, ducati 4.128, cioè ai stradioti ducati 146 per paga, ai fanti predetti ducati 297 per paga e quando è maggiore numero di soldati, com’è stato gl’anni passati, ci va maggior spesa; sono stradioti a cavallo 19, cioè 12 sotto il strenuo Dimitri Dada e 7 sotto il strenuo Zorzi Condo, oltre li quali sono 5 Crovati che stanno nella città al’obbedienza de magnifico Proveditore et hanno le medesime paghe che tirano i stradioti, la qual spesa separata monta all’anno ducati 1.168. I fanti a piè sono 80, cioè 50 sotto il governator Battista Cruciffisso da Ravenna e 30 sotto il strenuo Battista Zautto [?], la qual spesa ordinaria de fanti asende alla summa di ducati 2.376 all’anno. Il Cruciffisso è successo nuovamente al governator Baldassar Porduti, ch’era per avanti con fanti 70, il quale avanti la sua partenza ha fatto la mostra della sua compagnia, la quale comparse bella e buona ben all’ordine, fornita di buoni et onorati soldati, ancorcché fosse vecchia.
Il territorio di Cattaro è longo circa miglia 10, poco lungo, perché la longheza è occupata da Turchi, massimamente dalla banda della costiera di Risano, onde per esser occupato il territorio cavano i Cattarini pocchissime biave et al più raccolgono 500 stera di biave d’ogni sorte e dalla sola parte del territorio de Zuppani avevano stera 8.000.
Vini ne hanno da bever per tutto l’anno e meno secondo che le tempeste, che sono spessissime li, fanno danno, cavano qualche pocco d’oglio e tutte l’entrade de tutti i Cattarini possono ascendere alla summa di ducati 7.000. Li villaggi sono ora in tutti 40, sono fra i principali Luciza e Perasto, il quale fa uomini da fatto 500 et è alla riva del canal di Cattaro, lungi sei miglia dalla città, li quali tutti sono marineri e patroni di buoni navigli, con li quali vanno in diversi luoghi con mercantie, di che si prevalgono assai. Il loro territorio confina con le case proprie de Perastini, sono in tutto nelli villaggi circa 9.300 anime et uomini da fatto 1.140. Vicinano tutti qesti Cattarini e suoi sudditi con Turchi benissimo, il che procede alla destrezza e prudenza che usano i magnifici Rettori con i personaggi turcheschi, accarezzandogli e presentandolli spesse fiate, ancorché questa spesa sia eccessiva, perché potriano i Proveditori tenersi benevolli i Turchi con destrezza e senza tanti presenti, con li qual si arrischia il publico e si accresce forza e modo al nemico d’offendersi. Non è da ommetter che siccome le sentenze del magnifico Proveditor fra quelli della città vanno in appellazione alli colleggii di Padoa, Treviso e Vicenza, così quelle che sono fatte fra gl’uomini del territorio sono spedite dal magnifico Proveditore solo e si appellano a Venezia, dacché chiaramente si conosce la mala volontà dei nobili di natura prosontuosi e superbi, tuttochè sono in estrema povertà.
Ragusi
Alli 3 di settembre la domenica dopo messa partissimo dalla città di Cattaro nella galera del magnifico Frisco Drago sopracomito, il quale usò amorevolezza, cortesia e liberalità nel viaggio et approdassimo al scoglio detto Lacroma, lontano dalla città di Ragusi un miglio, ove dimorassimo quella notte nel monastero della Madonna dell’ordine dei fratti di san Benedetto o di san Zorzi maggiore, luoco bello et ameno, il qual viaggio fu di miglia 70. Questo scoglio è di giurisdizione della signoria serenissima, il quale per esser così appresso e dirimpetto della città di Ragusi i signori ragusei hanno voluto più volte dar gran somma di dannari alli signori veneziani per averlo, il che sempre gli è stato negato, perché si può dire che chi è padrone del scoglio sarà col tempo di leggero signore della città di Ragusi, essendo quella superata e battuta dal detto scoglio, massimamente dalla parte verso ostro, dove il scoglio non è lontano dalla città passa 150, ch’è eminente e sta cavagliero alla città, di che avvedendosi i Ragusei hanno fabricato e tuttavia fabricano un baloardo grandissimo et alto, non di meno se li Veneziani volessero impadronirsi della detta città i Ragusei non averiano tutta quella gagliarda diffesa che forse gli bisogneria da quella parte. Il quarto giorno del detto mese s’avvicinassimo verso Ragusi, dove fussimo a buon ora e smontassimo dalla galera, nell’entrar della porta della città doi ambasciatori mandati da quella città vennero ad incontrare i magnifici Sindici et gli accompagnarono per tutta la città, mostrandogli tutte le cose degne et al fin li condussero nel palazzo del magnifico suo Rettore, dal quale ne fu fatta grandissima accoglienza et apparecchiare confecioni e rinfrescamenti in abbondanza, e dopo ritornati alla galera la città e il Rettore insieme, il qual per usar alli signori Sindici grado segnalato di cortesia e di amorevolza, gli mostrò la moglie et i figli, gli mandarono il solito debito presente.
Ragusi è città famosa di Dalmazia, posta nelle spiaggie verso maistro, addosso d’un monte asprissimo, il resto del sito è tutto piano, verso levante ha il porto, serrato da una catena, dentro del quale vi può entrar ogni gran nave, ma vi capisce pochi legni, perché è angustissimo, quivi è la porta e portello ch’entra nella città, ch’è fra due baloardi, uno di questi gagliardissimo è verso tramontana, dove è la porta di terra ferma, che tende verso Costantinopoli, ma non fornito, il quale diffende quella parte galiardissimo, perché il monte si conchiude da questo lato e verso maistro con la città, una parte della costiera d’esso è compresa nelle mura di detta città, ne vi è pianura né puoca né assai dove si possa accampare qualche numero de fanti per darli la battaria, il sito perciò da questa banda rende questa città inespugnabile e tanto maggiormente quanto che sopra il monte non si potria condur altellaria per offenderla; verso ostro è l’altro bastione alto e gagliardo, il quale è appunto detto scoglio di Lacroma et è appunto il porto, questo non è medemamente del tutto fornito, ma gli manca parapetti et altre cose, le quali tuttavia vanno fabricando. Alla custodia di questo baloardo va ogni sera un gentiluomo raguseo, come anco va un altro nel castello verso scirocco, ch’è la parte del canale. La città da questa parte è assai debile, perché una gagliarda armata per mare la danneggiaria molto, onde assai li Ragusei, finito il baloardo verso ostro, hanno opinione di fornir l’altro verso tramontana, in fatto credono di far un altro baloardo verso scirocco in ponente et un’altra porta di terra ferma, che vada verso il territorio raguseo alla volta di Curzola, fuori della quale lungi delle fosse 100 passa in circa, è sopra un alto diruppo un castello non molto forte di muraglia, né di bastioni, ma assai galgiardo per lo sito, che lo fa cavagliero a tutti quei contorni detto Relpaono [?], il qual fu fabricato in una notte di tavole dall’armata veneziana, essendo Capitan general d’essa un gentiluomo Michieli vocato, ove va com’è detto alla custodia ogni sera un gentiluomo raguseo, il qual sta la notte et il giorno seguente e poi la sera un altro gli da il cambio, è appresso una guardia d’Ungari, che altra gente non è stipendiata da Ragusei, il numero de quali può esser da 30 in 40. Il circuito di tutta la città è per doi terzi di miglio et attorno le mura vi è una buona copia d’altellaria bellissima. È adornata questa città di bellissime case, monasteri di frati e monche, nelli quali sono molte palle d’oro ornate di gemme, che sono di gran richezza. Sono molti edifici alti e belli, una bellissima piazza, due freschissime fontane, di maniera che tutte queste cose rendono bella la città e vaga, ma più l’adorna la frequenza de marcanti e forastieri che vi capitano. Non hanno molte entrade, il nervo delle quali consiste in vini, perciò si prevalgono dei traffichi e vi sono molte famigle che possedono 100.000 ducati e più di facoltà, navigano per tutte le parti del mondo et hanno fra tutti 100 navi da gallion, di maniera che in Ragusi si stima grandissima quantità di dannri e perché vanno a mercantar per tutte le parte del mondo e vogliono mantener e conservar la loro cara libertà, tengono buona amicicia con tutti i principi e specialmente col Signor turco, col quale confina da pertutto il territorio loro e li pagano tributo ordinario ogni anno 13.000 ongari, medemamente sono feudatari della Serenissima signoria, della maestà cesarea e del re cristianissimo, si regono alla Republica e vivono liberi non sottoposti ad alcuno. Nel Consiglio entrano tutti i nobili passata l’età di anni 20 et sono ora 300 le famiglie de nobili. L’entrada della Republica non ascende a gran somma, il maggior nervo d’essa è nel tratto della dogana delle mercanzie d’ogni sorte e nelli sali che stanno alla bocca del stagno, per circa di ducati 30.000, dei quali sali ne spediscono gran quantità ai sudditi turcheschi et una parte del tratto dei medesimi va al Turco, il qual tien un emino, come a Sebenico, che scuode tutte le gabelle dai suoi sudditi di quanto portano a Ragusi.
Nella città sono anime 30.000, huomini da fatto 3.000 gran parte forastieri, nel territorio sono anime 25.000, uomini da fazione 4.000, per tutto lo Stato loro mandano da 50 de suoi gentiluomini a governar i luoghi a loro soggetti, fra li quali non è altra città oltre Ragusi e Stagno, il resto tutto castella e villaggi, l’isola Meleda e l’isola di Mezzo. Il territorio di tutto il loro Stato commincia dalle Bocche di Cattaro e si estende fino a Cao Gomena, lontano da Curzola 10 miglia verso Lesina, ch’è longo miglia 100 pocco largo, per rispetto che il Turco possiede il resto. Li abitanti della città sono assai civili e politici e parlano tutta lingua dalmatina e franca, ma non sono molto destri nel pratticar con i forastieri, è vero che molti di quei gentiluomini sono affabili, gentili e cortesi et dimostrano bellissima usanza, li quali sono che continuamente pratticano per lo mondo spediti da Ragusei. Fu datto dei remi all’aqua et arrivassimo verso Curzola, ma non passassimo il porto quella sera di Stagno, dove sorgessimo e dimorassimo quella sera nel monasteri de San Sebastian dei fratti zoccolanti, il cui sito è vago e dilettevole a maraviglia, ornato di forastieri e ben coltivati giardini, come sono tutti i luoghi di Ragusi, nella giurisdizione delli quali è questo monastero, il qual è lontano da Ragusi 20 miglia, li quali religiosi asseriscono che vivendo d’elemosina, come vivono, non potriano durare, se non andassero mendicando nel paese turco, ritrovano gran quantità d’elemosina et hanno grazia del Signor turco di fabricar chiese et altre sue cerimonie esercitar, affermando che tutti i figlioli nati di Turco si battegiano subito nati, il che cede a grandissimo utile loro. La mattina seguente, che fu il di quinto dello stesso mese, pigliassimo il camino verso Curzola passando con tranquillità di mare e di vento la bocca di Stagno e la Zugliana, tanto pericoloso a naviganti e venissimo a disinare a Porto Palazzo, lontano da Curzola miglia 20, et arrivassimo a Curzola ad ore 20, che sono miglia 60, ove dimorassimo fino alli 8 del detto mese, che fu il giorno della Madonna.
Curzola
Giace nel seno Adriatico della provincia di Dalmazia un’isola chiamata Curzola, di miglia 80 di circuito, longa miglia 40 e larga miglia otto, la qual dagl’antichi scrittori fu chiamata Corciranegra, perché fra tutte l’isole circonvicine quest’isola appar negra, per la densità dei boschi che vi sono vicini, così detta a differenza di Corfù che si chiama Corcira bella. È sopra una delle estreme parti di essa fabrica una città chiamata anticamente Curzola, ma perché questa città è come un scudo picciolo, che vuol dir curzolo, par ch’essa abbia aquistato questo nome da qualch’uno dei condutori o per qualsivoglia altra ragione. Fu fabricata secondo l’oppinione di chi vertente da Antenore, quando è partito da Troja, come si ha detto d’Antivari, il che è affermato dal Sabellico Corciira Melena, che vuol dir negra in greco, e questa esser quanto poi nel libro della natural istoria nell’ultimo capitolo del settimo libro dicono esser stata edificata dai gnudi popoli, il che per avventura potria esser, perché Antenore ebbe seco diverse compagnie di popoli, fra quali potran essere i gnudi, li quali fondarono la città, il cui sito è sopra un colle, né altro vi è di piano che la piazza, che il resto delle contrade sono tutte in riva e rotte. Il circuito può esser d’un terzo di miglio e le muraglie sono antichissime e poste in pianura attorno, attorno al dirimpetto d’essa verso la tramontana è la costiera detta Sabincello, luogo di Ragusei, famoso per la copi di vini ch’ella produce, la quale è oltre il canal marino, che ivi non è più largo che un mezzo miglio. Nel tempo adietro questa città regevasi, come ora fa la città di Ragusi, ma chi [?] aveva ultimamente sottoposta in prottezione del re d’Ungari. I nobili in mano de quali stava il governo di tutta la città et isola eleggevano il suo Rettore, o Curzolano o forestiero, come piaceva loro, la onde quasi presaghi di dover sottomettersi alla devozione della Republica, dal 996 elessero per loro Rettore un nobile veneziano, come facevano molte città di Dalmazia e come poi si legge nei privilleggi loro del 1420, li 24 aprile, la vigilia di san Marco, gl’antedetti gentiluomini che reggevano la città drizorono il vessillo di San Marco e chiamorono volontariamente il Capitano general da mar, ch’era il clarissimo messer Pietro Civran, il quale pigliò il possesso, e diedero il loro giuramento di fedeltà, come si dovria fare da per tutto, et anco ai capitani da guerra, imitando tutti i principi moderni et la bona et anticha milizia de romani, e da quel tempo in qua Curzola è stata alla devozione della Serenissima signoria.
Nel Consiglio di questa città sono admessi tutti i gentiluomini, soli passati anni 17, il qual Consiglio non può esser fatto, se non sono congregati per lo meno al numero di 50. Hanno condizione di far due giudici maggiori, che giudicano assieme col magnifico Conte messer Pandolfo Valerio in civil et in criminal, et ogni uno da per sé per una certa somma, appresso eleggono tre giudici minori che giudicano fin ad una certa summa e quei [?] quasi sogliono star per le ville a giudicar, et oltre altri molti officii che hanno, ellegono ad ogni richiesta del illustrissima Signoria un sopracomito et anco un Camerlengo, il quale administra l’entrade e spese della communità, la quale ascende alla summa di lire 2.894 e si cavano da diversi dazii, come sono quelli del vin, biave, pietre, beccaria e delle affittazioni di diversi scogli, la spesa veramente di essa è di lire 2.740, le quali si fanno nel pagar medico, speciale, maestro di scola, canceliere, giudici et altri ufficiali, di modo che l’entrata è maggio[r] della spesa ordenaria di lire 154, l’entrada che ritrae la Serenissima signoria ascende a lire 540, la qual va in pagar certi provisionati e doi soprastanti, uno alle fabriche e l’altro alle munizioni, et altre cose estraordinarie, di modo che l’entrata è maggior della spesa 1.124. Il magnifico Conte poi si paga del quarto dell’entrate de alcuni benni posti sopra la medema isola nonciati benni del contado, li quali sono beni feudali e questa entrada può valer ducati 400 e sta in regimento tre anni. Le famiglie nobili sono Arneri, Ismaeli, Simonetti, Urbani, Ostoich, Niccolicchi, Rosanei, Niconicii, Canavelli, Petris, Stella, Vidali, Gabrielli, Zilii, Vidossii, Spanich, Parpaci et Obradich, fra li quali non vi è ricchezze notabili, perché la maggior entrada può esser ducati 300 e 200 et alcuna di 100 e meno secondo la stagion, perché il nervo quasi tutto consiste in vini; dei populari vi è qualcheduno onestamente commodato con l’entrade, con qualche traffico e con opere manuali. Li traffichi che si fanno è in Puglia per formenti, li quali conducono a Curzola et in altri luoghi, salano assai sardelle et altri pesci, quali menano in Puglia, che ne pigliano quantità grande. Sono anime nella città 2.530, delli quali sono da fatto 500 e per l’isola sono altretanti, nella quale sono sei villaggi, il maggior è Blatto, nel quale ponno esser da 220 fuochi, gli altri sono piccioli. Rende tutta l’isola communemente ogni anno 35.000 quarte e più di vino buono e precioso, biave non nascono più di 500 stara veneziani circa, perciò li convien comprar formenti forestieri. Sono in quest’isola molte vestiggie di terre e castella e specialmente in villa Lombarda si ritrovano certe vestiggie di Pago grandissime edificato di pietre minute e quadre et egualmente fatte con le sue punte in su et in giù, con grande artificio messe insieme. Fuori dell’isola non vi è porto sicuro ai naviganti, benché siano molte spiaggie, valette et ridutti per qualche tempo buoni. A mezz’isola poi di foravia si trova un porto chiamato Bruma [?] capace di 200 navigli, quantunque non sia troppo sicuro per venti da ponente, e da questo luogo sin all’all’altro capo dell’isola di fuoravia sono molti e diversi porti piccoli e grandi, come Gerviosa, porto corto et altri quasi al numero di 30, sopra la ponta dell’isola per ponente vi è una valetta grandissima, che fa il porto morte d’anfiteatro [?] longa 10 miglia in dentro, la qual valle è amenissima e quietissima, e similmente dalla parte che riguarda settentrione sono molte vallette al numero di 17. Alli 8 del detto mese di settembre, doppo disnar, partissimo da Curzola nella detta gallera cattarina e con vento da tramontana assai prospero venissimo quella sera a Lesina, che fu di ritorno.
Alli 16 detto fu sabato partissimo da Lesina nella galera Centana e venissimo la sera medema a Spalato spinti da un gagliardo sirocco.
Alli 21 detto partissimo da Spalato e venissimo a Traù per terra, che sono miglia 16.
Alli 25 detto partissimo da Traù e venissimo a Sibenico, il dì medemo a mezzo giorno, dove stessimo fin alli 29 detto.
Alli 30 detto partissimo da Sibenico e venissimo quella sera a due ore di notte a Zara nella detta galera Centana.
Alli 11 di ottobre partissimo da Zara sopra la fusta del magnifico messer Nicolò Suriano, dal quale ai signori Sindici furono usate grandissime cortesie et amorevolissime accoglienze, et arrivassimo quella sera nel porto detto Mandria non sicuri dai venti et il di seguente giungessimo in Arbe a mezzogiorno.
Arbe
L’isola di Arbe fu anticamente chiamata Scardona, secondo l’opinione di Plattone, Plinio et altri scrittori, sopra la qual erano due città, cioè Arbe e Colentie. Questa è ora distrutta e solamente ora i suoi villaggi lontani dalla città miglia tre. Le popolazioni si sono sciolte in uno et in memoria di ciò nelle processioni, che alla giornata si fanno, il clero d’Arbe porta pennoni o croci. Quella circonda passa 600 et è tanto antichissima che per la molta vetustà non si trova l’origine e principio della sua fondazione et edificazione, la quale, prima che venisse nel poter delli signori venenziani, si reggeva a communità, raccomandata però al serenissimo re d’Ungheria, e nel suo Consiglio elleggevano i suoi Rettori, che solevano esser onoratissimi personaggi, onde si trova che già gran tempo il gran marescalco di Sicilia venne a questo reggimento, chiamato dalla communità d’Arbe, venne poi volontariamente alla divozione della Republica del 1410, i quali primi anni la Serenissima signoria mandava Rettori in Arbe quei ch’erano elletti dal Consiglio ordinario d’Arbe et erano de primi senatori, de quali alcuni, essendo in magistrato d’Arbe, furono creati doge de Veneziani, come fa menzione il Sabellico.
Fanno oggidì nel suo Consiglio tre giudici, che rendono raggione insieme col magnifico Conte messer Leonardo Cigogna nelle cose civili, che nelle criminali non hanno voce, e quando bisogna creano il sopracomito et elleggono altri suoi ufficiali. Le famiglie nobili che sono del Consiglio sono Galcigna, Zudenichi, Signacussa [?], Dominis, Zaro, Pacifficii, Spalatini, Hermolagio, Marinelli, Canotta, Himisa [?] e Radovcich. Circonda tutta l’isola miglia 30 e sopra di essa vi sono separate assai case una non molto dall’altra, ma ville non sono, salvo che una di 40 fuoghi e si chiama Sepato. Produce buona quantità di vini e per suo uso a sufficienza, ma pocche biave e pocchi fighi, doppo che li anni passati i figari furono seccati dal freddo. È tutta l’isola bella, amena e vaga, ha bellissime case, è copiosa di aque vive e fra le altre ha un fonte limpidissimo, che fa macinar un molino estate e verno, e per essa di vedono sparsi musaiche e fondamenta di mura antiche che danno indicio che altre volte vi sia stato qualche castello, et intorno, intorno ha molti porti, ma quelli che sono nel canale ch’è fra essa e la Murlacca non sono usati per dubbio di Euscochi e malandrini, ma verso maistro è il porto chiamato la valle del Badoer, il porto san Cristoffollo, valle Secca, Santa Margherita, la ponta di Capo di Frontelato, Camparà, valle di san Pietro, Varan scoglio, ponta di Sarigro, valle di Leparo, ch’è in capo dell’isola. Dall’altro capo dell’isola vi è un canal fra l’isola et un scoglio chiamato … longo cinque miglia et in capo di detta isola è un porto chiamato Misgnach. Sono sotto Arbe due altri scogli uno si chiama l’Artachetra [?] con porto detto san Gregorio e l’altro si chiama Gollian, con un porto detto Sarina, questi sono abitati da pastori, che tendono agl’animali che pascolano sopra e sotto Arbe e una parte dell’isola di Pago per 15 miglia di longhezza, sopra la quale sono due porti sicuri, dalla qual parte dell’isola di Pago cavano il vivere molti Arbesani, altrimenti stariano male, per esser gran povertà fra i popoli et abittanti del luogo, non essendo molti, essendo maggiore quello della lana, della qual vive e si mantiene la povertà. Sono in tutta l’isola e città anime 3.500, de quali uomini da fatto 800, ma nella città 330 fuochi solamente. Era per l’addietro questa città molto più abitata e frequentata, ma dopo che le montagne della Murlacca cominciò a disabitarsi, per il danno che li facevano li Euscocchi e Martellossi, e massimemente dopo la desolazione della città detta Serisa, cominciarono a mancar in Arbe i traffichi e le vittuarie, che erano portate di continuo dai Murlacchi, di modo che i navigli, ch’erano molti, li quali navigavano in Puglia, nella Marca et in diversi luoghi portando diverse merci che venivano dalla detta Murlachia, restarono di navigare et in questo modo si ommesse il traffico e s’impoverì e disabitò la città d’Arbe.
L’isola è poco lontana da Segna, staria bene che attorno le mura facessero le guardie la notte per ogni buon rispetto, la qual provisione si potria dar in questo modo. Ogni sera mandano 9 uomini nella loggia, senza proposito, pagati dal popolo d’Arbe, così se crescessero appresso questi altri 4 sarrebbero soficienti di far la guardia attorno le mura, il che saria neccessarissimo.
Alli 21 d’ottobre partissimo d’Arbe sopra il bregantin di Nicolò Novello, accompagnati dal bregantino di Dimitri Greco, e quando fussimo circa 15 miglia lontani d’Arbe fussimo assaliti dal vento di borra, così gagliardo che n’impedica il camino, onde fossimo sforzati pigliar un porto in luogo sotto la Murlaccha chiamato porto Terra, appresso Scritta, la qual terra è disabitata e già 26 anni fu rovinata e distrutta da Turchi et era del conte Zuanne Frangipani di Croazia, sono ancora in piè tutte le case discoperte et ancora vi è una chiesa, ma la palla dell’alatare è stata levata da quelli di Pago e riposta nella loro chiesa, et è ancora la torre, ch’era la fortezza di quel luogo, e molte di quelle case sono alla riva della marina a guisa di magazeni, onde si comprende che fusse assai buon luogo e marcantesco, come anco affermano quelli di Pago et Arbe, della quale avevano grande utile et aiuto. Stessimo in quel porto tutto quel giorno, nella qual ora parve che il tempo fosse aquietato, onde salpassimo e partissimo per andar a Pago e quando avessimo fatto tre miglia di cammino comminciò a soffiar la borra, cacciandone per puppa con gran impeto.
Saline a Sebenico del 1500 si estraeva per Turchia grandissima quantità di sal. Comercio convenuto col Gran signore coll’ambasciatore messer Pietro Zen emino a posta.
A Scardona vi erano del 1500 foli otto
Sal a pala battuta cresce 10 0/0 dalla pala piena [?] ma sovente sino a 40 0/0
Saline a Traù spazzo grande a Turchi
Saline a Vragonizza in Spalato, vendevano pria del 1550 gran quantità di sale
Almissa era Scala per i mercanti turchi.